Per fare un film ci vogliono grandi mezzi, pare. Ma se si è un regista inventivo e perseguitato da un regime, se si ha avuto la proibizione di girare film per i prossimi vent’anni, a causa di opere belle e poetiche, premiatissime e sgradite al regime teocratico in questione, insomma, se uno è Jafar Panahi, il film lo realizza anche dentro un taxi che gira per le strade di Teheran: appunto Taxi Teheran (Orso d’oro a Berlino)
Potrebbe essere ideologico, di denuncia triste e tetra, invece il film è solare, e usa la strategia del sorriso per farci comprendere cosa succede: ci mostra il punto di vista infantile per spiegare l’idea di cinema del regime teocratico, fa discutere le persone dentro il taxi sulle punizioni capitali, e ci mostra una donna bellissima, che regala rose rosse e difende i prigionieri politici dicendo degli aguzzini: “sappiamo come sono, sono prevedibili.”
Sono prevedibili e arcaici, i dittatori ovunque si trovino, convinti che il mondo sia e rimanga come lo vogliono, e tentano di controllare l’incontrollabile: l’immaginazione, la creatività, e l’uso di tecnologie oggi, che permettono di fotografare e filmare anche con piccolissimi e semplici mezzi, e lanciare tutto in nuvola, inafferrabile e subito oltre frontiera.
Moltiplicando i punti di vista dentro e fuori del taxi, con l’uso di camere diverse, in mano a una bambina o a un passeggero, Taxi Teheran diventa un film vero e proprio, semplice e potente, capace di mostrare come nel cinema la “realtà” sia ricostruzione, idea, visione, pensiero, punto di vista per esprimere sentimenti, condizioni umane, tanto più forti e vere quanto più espresse in totale libertà.