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Archivio mensile:gennaio 2022

Siete ancora in tempo per passare una domenica bellissima, in compagnia di una musica che un po’ conoscete, un po’ ricordate, un po’ imparerete. Una domenica che ci permette di essere fieri dell’Italia e della sua tradizione musicale, dei suoi registi cinematografici del Novecento e anche di adesso, di persone che si dedicano all’arte con disciplina, rigore, perseveranza e umiltà fino a diventare inconsapevolmente unici, grandi innovatori, maestri, amati da tutti perché sanno cogliere un’essenza profonda e misteriosa, sanno contattare un sentimento universale e trasmetterlo.

Sto parlando del film-documentario di Giuseppe Tornatore, Ennio, sul compositore celeberrimo Ennio Morricone, che ha musicato film importanti e famosi, un artista versatile, che ha saputo coniugare popolarità con cultura intellettuale, trasfondendo la sperimentazione musicale del Novecento nelle colonne sonore di film amatissimi, un musicista che già dalle prime note è inconfondibile, non può essere che lui, Morricone, al punto che dei film ormai non si ricorda niente mentre la musica è incancellabile e talmente orecchiabile che possiamo fischiettarla e canticchiarla, come Mozart, come i Beatles.

Giuseppe Tornatore si mette da parte per raccontare il maestro, assembla una grande quantità di materiale filmico, intervista registi di mezzo mondo, compositori, musicisti, cantanti, produttori, e soprattutto dà voce a lui, al gentile signore anziano dagli occhi scintillanti, grandi come quelli di un bambino, e come carichi di stupore per aver realizzato così tanto, perché in fondo era il suo lavoro: arrangiare, scrivere musica, collaborare con personalità urticanti come registi o cantanti famosi. E non soltanto era un lavoro per portare a casa la pagnotta, ma era pure considerato con un certo disprezzo dal suo maestro Petrassi e dai colleghi del conservatorio, della musica “contemporanea” che non poteva né doveva abbassarsi a essere popolare, figurarsi essere “colonna sonora”.

Ma la genialità dello schivo maestro è stata quella di creare una nuova musica, non di accompagnamento, ma narrativa, evocativa, suggestiva, emozionante, una musica che “fa” il film e senza la quale certi film non sarebbero così toccanti, come “The Mission”, come “C’era una volta in America”, una musica che può anche fare a meno dei film per essere suonata in arena, in teatro, da orchestre con immensi cori e da rockband, da rapper e da cantanti lirici.

Ho la fortuna di avere avuto un papà musicofilo, amante di Beethoven, di Verdi e di Morricone. Negli anni ’70 dello scorso secolo, mio padre ascoltava con attenzione e piacere i nastri registrati con le musiche “dei western” e non pochi lo prendevano in giro: come mai Morricone, tu che ami Verdi? E lui: Proprio per questo, è il nuovo Verdi, il nuovo Beethoven. Oggi, lo dice Quentin Tarantino alla serata degli Oscar, lo dicono compositori e musicisti. Mi commuovo molto e penso che uomini come Ennio e un po’ anche mio papà, grazie alla conoscenza della musica, vedevano e ascoltavano il futuro.

Spero proprio che Cyrano sia distribuito in Italia: è un capolavoro per gli occhi, fantasmagorico, colorato, antico e contemporaneo, settecentesco, barocco e rock. Ho avuto la strepitosa occasione di vederlo in anteprima grazie all’amico Alessandro Bertolazzi che ha inventato e curato il trucco dei personaggi. Non è affatto scontato, come si sa, perché non basta ispirarsi ai ritratti d’epoca, ma costruire maschere per esprimere un’idea e trascendere l’epoca, restituire immaginazione e sentimento e in questo Alessandro è maestro.

Il film di Joe Wright è strabordante di personaggi come un tempo lo erano i colossal, e si vorrebbe potersi soffermare sulle dame sedute in circolo, ognuna con un abito magnifico, un cappello, un ventaglio in mano, gioielli e scarpette di raso (e i costumi sono di un altro magnifico artista italiano, Massimo Cantini) dentro un’inquadratura che sembra un tableau vivant, all’interno di palazzi veri e non ricostruiti in studio, di una Sicilia ancora presente, quella di Noto e Catania, dove è stato girato il film. Che è un musical e non lo è: non si canta sempre ma soltanto in certi momenti e le musiche, nuove, originali e pop sono dei The National, gruppo indie americano che non si capisce come mai non è nella rosa dei selezionati per l’Oscar. Si danza, ma non è la danza la parte principale, come in un musical che si rispetti.

Perché a superare tutti i codici dei generi (musical, film in costume, film teatrale) è la storia. Cyrano non è lo spadaccino nasuto ma un essere umano diverso, di ridotta statura, dagli occhi color del cielo e l’espressione sofferta di un attore del calibro di Peter Dinklage. Nella miscela di etnie e di colori della pelle, come oggi è giustamente in uso nei film contemporanei, questa diversità colpisce e ci spinge alla riflessione, perché, come nell’originale di Rostand, l’apparenza nasconde la sostanza e la bellezza interiore, espressa dalla poesia, non riesce a fugare l’orgoglio (di Cyrano, che non vuole svelarsi per rischio di essere rifiutato) né l’illusione di Rossane, che apparenza sia sostanza. Rossane, d’altronde, non è la donna ideale, oggetto dei desideri di Cyrano, Christian e il duca, ma una donna di sentimento e volontà, ed è soprattutto suo il punto di vista all’interno della narrazione che inizia con lei per seguire lo sguardo di Cyrano e poi quello di Christian.

Sono temi attuali, in cui penso che i giovani possano ritrovarsi, soprattutto nella difficoltà, nella paura di mostrarsi per come si è, in un mondo in cui tutti si creano avatar e si fingono sempre felici sui social. Si è parlato di una versione romantica, ma non nel senso di “romance” o di sentimento, casomai di illusione ovvero di proiezione, di cui oggi siamo tutti oggetto.

West Side Story di Spielberg mi ha fatto l’effetto delle canzoni di Battisti cantate da quello e quell’altro, magari vocalmente bravissimi/e, raffinati, iperbolici, ma alla fin fine senza confronto perché Battisti, con la sua voce sporca aveva un modo talmente personale che o lo imiti e sei ridicolo o lo peggiori.

Insomma, che è Spielberg si vede da tutto quel movimento di camera, dalle inquadrature e poi certo la danza si è fatta più muscolare, aggressiva, ma alla fine l’originale è comunque migliore, è più astratto se vogliamo, di sicuro è rivoluzionario considerando che fu realizzato nel 1961, in età di lotte contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti.

Non poteva il remake essere più audace? Persino il Rigoletto è stato genialmente attualizzato con il duca di Mantova che diventa re dei narcos (regia di Damiano Michieletto). Oggi poteva essere un “black lives matter”, per esempio. Oltretutto, come si sa, è l’ennesima trasposizione di Romeo e Giulietta in tempi moderni e come sempre il Bardo vince 100 a 0 perché la poesia, scusate, non è la canzone.

E’ vero che Spielberg ormai è regista anziano, ma tanto per non andare a citare il passato ma il presente, il suo collega novantenne Clint Eastwood, all’età che adesso ha Spielberg, ha saputo regalarci dei capolavori come Million Dollar Baby (a 75 anni) e Gran Torino (a 78). Ma bisogna aver qualcosa di profondo da dire.

Qualche giorno fa è stato pubblicato l’appello di un gruppo nutrito di scrittrici e artiste perché sia presa in considerazione “una donna” per la carica di Presidente della Repubblica. Mi spiace, ma a me un appello del genere sembra appunto generico.

Che vuol dire “una donna”? Come al solito, in Italia si evitano di fare i nomi perché sembra di posizionarsi di qua o di là, quando oggi una maggioranza altissima di italiani ha in uggia i partiti, quindi perché rischiare di essere impopolari? Le donne che hanno scritto sono personaggi pubblici, non sia mai che rischino di inimicarsi una fetta di lettori o spettatori. Ma dire “una donna” non significa niente, soprattutto in un Parlamento che in entrambi i rami ha una rappresentanza femminile risicata e sudata a colpi di quote rosa.

E allora più che suggerire qualche nome, proponiamo un nome. Un appello ha più senso e forza se riesce a stringersi intorno a una persona che sia rappresentativa di artiste intellettuali scienziate filosofe e altro: ma questo significa costruire almeno una piccola rete che converga su una persona in particolare, mentre quella “donna” generica resta l’ideale, come quella che molti uomini inseguono per tutta la vita, pur sposandosi e conquistandone a bizzeffe. Ammettiamo che il Parlamento tutto decida di eleggere, per esempio Gianna Nannini che in una provocazione geniale si è autocandidata: gran parte delle firmatarie storcerebbero naso bocca occhi, dicendo che non è “la donna” che ci si aspettava, perché non è giurista, non conosce la politica, non ha i requisiti eccetera eccetera.

Care smemorate, rammento quando partì la campagna “Emma for president”: si trattava di Emma Bonino, che non è una cantante né una scrittrice e nemmeno la Giannotti che ha ben altro da fare al CERN, ma una politica di lunghissimo corso. Era il 1999 e già si invocava “una donna” al Quirinale, anzi, un buon terzo di italiani vedeva bene la Bonino sullo scranno “più alto”. La campagna era assai ben fatta e si diceva che ci fosse lo zampino (ovverosia il contributo sostanzioso) di Berlusconi. Ma poi… chissà perché… non ci ricordiamo come mai… fu eletto Carlo Azelio Ciampi, un banchiere.

E così andrà anche questa volta, in cui della “donna” c’è solo il fantasma.