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Oggi, giornata dedicata alla riflessione (e all’azione possibilmente politica e legislativa) sull’inesausta violenza sulle donne, ho scelto questa autobiografia della scrittrice iraniana Masih Alinejad, pubblicata a settembre del 2020 dalla casa editrice Nessun Dogma.

Ironica, battagliera, ribelle fin da piccola, Masih ripercorre la sua infanzia in un piccolo paese che, come tutti i piccoli paesi del mondo, è tradizionalista, bigotto, conservatore. Così, quando nel 1978 arriva la rivoluzione che caccia lo scià, il padre di Masih, agricoltore e venditore ambulante, si schiera nettamente dalla parte degli sciti integralisti, applicando in casa le norme rigidissime che Masih contesta: indossare il chador, non uscire se non per andare a scuola o alla moschea, non frequentare ragazzi, e considerare l’Occidente il diavolo.

Gli anni dell’adolescenza trascorrono nell’Iran dominato dalla teocrazia, ma Masih fa parte di un piccolo gruppo di giovani amanti della letteratura e vagamente rivoluzionari, perciò è imprigionata e processata. Salva grazie alla scoperta di essere incinta, per Masih inizia la vita che voleva sfuggire, come moglie e madre, divorziata a ventiquattro anni perché il marito si è innamorato di un’altra, e senza il figlio affidato al padre.

Caparbia, Masih senza laurea né diploma, senza saper lingue straniere, riesce a farsi assumere come giornalista in un periodo di lieve apertura nella cappa del regime, e da quel momento in poi la sua esistenza prende la direzione che desiderava fin da piccola: essere una donna indipendente, vivere nella capitale, viaggiare e soprattutto, come dice anche Malala “Speak up”, cioè alzare la voce e non lasciarsi intimidire né imbavagliare.

Nel corso di decenni la voce di Masih si è fatta potente e temutissima dal regime iraniano non solo in quanto dissidente, ma soprattutto per la sua battaglia femminista contro il chador e l’imposizione dello hijab, simboli religiosi usati per assoggettare le donne, e perpetuare una visione arcaica, patriarcale, violenta, immobile, del mondo.

hemonIl libro delle mie vite dello scrittore bosniaco Aleksandar Hemon è uno di quei libri che ci toccano. Perchè ci ricorda cos’è successo vent’anni fa in un paese non molto lontano da noi, la Bosnia, attraverso gli occhi di un giovane “ribelle” qual era lo scrittore che collaborava a una rivista, leggeva come un matto, e si interessava di una cultura proibita nel suo paese, la Bosnia, fino agli anni ’90 sotto la dittatura comunista, che teneva insieme stati della penisola balcanica pronti a affilare le armi e fare un macello appena caduto il regime.

Non ci sono numeri di capitoli, ma titoli, come se fossero tanti racconti riuniti in un’antologia che compone come un puzzle la biografia dell’autore. Il primo è, significativamente, “Le vite degli altri” citazione del celebre film di Henkel sulla Germania poliziesca per raccontare appunto la vita di una bambino ai tempi del regime comunista. La vita umana non è una sola, soprattutto per chi deve attraversare l’orrore di guerre, emigrazione, condizione di rifugiato, come succede a Aleksandar che ha la fortuna di essere chiamato negli Stati Uniti per una borsa di studio proprio quando Sarajevo viene assediata e rimane a Chicago cercando di cavarsela come può. I suoi genitori nel frattempo sono fuggiti in Canada e sua sorella si è rifugiata in Serbia. Così, ecco la “Vita al tempo di guerra” o la “Vita di un flaneur”.

Ma il romanzo delle vite e dei sogni, della giovinezza e dell’amore, del divenire scrittore e sentirsi anche americano, ha la lievità dell’ironia, del saper vivere  e raccontare in modo arguto e profondo, finché non si arriva alle pagine commuoventi, laceranti de “L’acquario”, in cui Aleksandar parla della malattia della sua bambina di dieci mesi. Allora tutto diventa “intensamente, gravemente reale”. Non c’è orrore più grande della malattia e della morte della propria piccola figlia.

pifUn consiglio: andate subito a vedere il film di Pif, La mafia uccide solo d’estate. In mezzo ai vari film di Natale più o meno ridanciani e vacanzieri, è un piccolo capolavoro di semplicità, tenerezza, e grande valore civile.

Pif è quel ragazzone che da anni gira filmati di taglio giornalistico per MTV, e ha preso dalla buona vecchia scuola della Nouvelle Vague francese e (Dogma poi) quel girare per strada con la camera a mano, attaccata alla sua faccia come un terzo occhio che registra e mostra, mentre la voce fuori campo commenta, dialoga con le persone o intervista.

In questo film che ricorda trent’anni di vita sociale a stretto contatto con la mafia, Pif sceglie di essere l’io narrante bambino che con occhi stupiti e ingenui vede la Palermo degli anni ’70 e ’80, in piena stagione stragistica, quando davvero nessuno ha potuto più tirarsi fuori, e continuare a pensare che la mafia è “come i cani, basta non infastidirla”, come dice il papà nel film.

Però, non voglio raccontare banalmente la storia, perché sarebbe un cattivo servizio a un film che commuove e sa anche far ridere, ed è girato bene, come un tempo giravano bene i nostri registi che stavano tra la gente e non si atteggiavano ad artisti. Come appunto Pif, che pure alla fine ci fa capire molto bene il valore della memoria e della sua trasmissione, come valore genitoriale, familiare, affettivo, per capire, crescere e cambiare una volta per tutte.

 

avversarioDifficile calibrare storia e discorso, contenuti e valore letterario. Emmanuel Carrère ha questo inconfondibile dono che ci permette di comprendere – anche solo istintivamente – la grande differenza tra narrativa volatile e letteratura permanente. Scusate, sono formule che mi permetto di coniare, se non altro per capirci quando parliamo di libri, di romanzi contemporanei che oggi sono tutti posti un po’ sullo stesso piano di fruizione, per un consumo veloce e nell’intento di realizzare grandi numeri, allargare il pubblico catturando possibilmente quelli che non leggono e che quindi da un libro si aspettano di essere incuriositi senza troppa fatica o sentimento.

L’Avversario di Carrère (Adelphi 2013, ma la prima edizione francese è del 2000) cattura il lettore che invece è disposto a farsi coinvolgere e interrogare, attraverso una storia estrema, d’impressionante e indecifrabile violenza: la strage, perpetrata da un uomo mite e insospettabile, della propria famiglia, dopo quasi vent’anni di menzogne e una doppia vita la cui facciata era di grande successo professionale, e in realtà era fatta di niente.

Ma come può un uomo ingannare per diciotto anni genitori, parenti, persino moglie e figli su una presunta laurea in medicina, e un lavoro prestigioso all’OMS di Ginevra, senza che mai nessuno sappia o si accorga, indaghi? Sembra assurdo eppure così è accaduto, e non si stenta a crederlo quando ripensiamo, ciascuno di noi, ai nostri movimenti, al nostro lavoro, a come tanta nostra vita si basa sulla fiducia, la credibilità, e dunque possa essere il perfetto scenario per chi non è un criminale per scelta e ammissione, ma per follia narcisistica, per menzogna e aggiungeremmo “sortilegio”, come titolava un celebre romanzo di Elsa Morante (Menzogna e sortilegio).

L’avversario è la traduzione dell’ebraico “Ha-Satan”, quello che noi chiamiamo Satana: l’ombra malvagia dell’umanità, una macchia che ci sfiora tutti e per questo ci fa così tanta paura.