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Religione

Grande potenza nel film di Marco Bellocchio, Rapito, che racconta un fattaccio vero, avvenuto pochi anni prima dell’Unità d’Italia, e cioè la sottrazione alla sua famiglia di un bambino ebreo a Bologna, per una conversione coatta al Cattolicesimo. Non è l’unico bambino, come si vedrà, ma fa parte di un drappello di ragazzini portati via dalle loro famiglie con la motivazione che siano stati “battezzati” di soppiatto e dunque, per la legge canonica, cristiani. Un progetto folle di pulizia etnica, si direbbe, perché quei bambini sono speciali, diventano la dimostrazione del trionfo della “vera” fede sulla “superstizione ebraica”, sono i pupilli del papa Pio IX che, anziché preoccuparsi dell’imminente frana del suo potere imperiale su mezza Italia, appare molto impegnato in questa opera di indottrinamento.

E sì, la Chiesa è molto cambiata, ci mancherebbe, quindi sembra quasi un documento storico. Se non che, da grande autore, Bellocchio sa toccare temi di attualità e sensibilità attraverso la funzione della memoria storica a partire dal mai sopito antisemitismo, dalla rigidità delle ideologie per cui non c’è comprensione, ma divisione netta delle posizioni e violenza sui più deboli, come nelle guerre ideologiche che ci circondano. C’è il tema dei bambini rapiti, come abbiamo appena assistito con orrore in Ucraina, com’è accaduto in tanti paesi dove i bambini sono destinati a essere soldati, e le ragazze finiscono spose o prostitute. C’è la follia delle ritualità ossessive, compresa quella dei tribunali che non sono al servizio della giustizia ma del potere, vecchio o nuovo. E c’è la libertà di pensiero del regista ultraottantenne, che sfrutta la bellezza dell’immagine filmica, con scene e costumi e soprattutto luce ottocentesca, a favore di una storia che ci fa riflettere su cosa sia l’educazione, come sia antitetica alla repressione e all’indottrinamento, alla manipolazione, come sciolga i lacci soprattutto dei sentimenti umani, perché la prima cosa che impara il piccolo Edgardo Mortara rapito è congelarli per diventare un automa.

Oggi, giornata dedicata alla riflessione (e all’azione possibilmente politica e legislativa) sull’inesausta violenza sulle donne, ho scelto questa autobiografia della scrittrice iraniana Masih Alinejad, pubblicata a settembre del 2020 dalla casa editrice Nessun Dogma.

Ironica, battagliera, ribelle fin da piccola, Masih ripercorre la sua infanzia in un piccolo paese che, come tutti i piccoli paesi del mondo, è tradizionalista, bigotto, conservatore. Così, quando nel 1978 arriva la rivoluzione che caccia lo scià, il padre di Masih, agricoltore e venditore ambulante, si schiera nettamente dalla parte degli sciti integralisti, applicando in casa le norme rigidissime che Masih contesta: indossare il chador, non uscire se non per andare a scuola o alla moschea, non frequentare ragazzi, e considerare l’Occidente il diavolo.

Gli anni dell’adolescenza trascorrono nell’Iran dominato dalla teocrazia, ma Masih fa parte di un piccolo gruppo di giovani amanti della letteratura e vagamente rivoluzionari, perciò è imprigionata e processata. Salva grazie alla scoperta di essere incinta, per Masih inizia la vita che voleva sfuggire, come moglie e madre, divorziata a ventiquattro anni perché il marito si è innamorato di un’altra, e senza il figlio affidato al padre.

Caparbia, Masih senza laurea né diploma, senza saper lingue straniere, riesce a farsi assumere come giornalista in un periodo di lieve apertura nella cappa del regime, e da quel momento in poi la sua esistenza prende la direzione che desiderava fin da piccola: essere una donna indipendente, vivere nella capitale, viaggiare e soprattutto, come dice anche Malala “Speak up”, cioè alzare la voce e non lasciarsi intimidire né imbavagliare.

Nel corso di decenni la voce di Masih si è fatta potente e temutissima dal regime iraniano non solo in quanto dissidente, ma soprattutto per la sua battaglia femminista contro il chador e l’imposizione dello hijab, simboli religiosi usati per assoggettare le donne, e perpetuare una visione arcaica, patriarcale, violenta, immobile, del mondo.