Berta Isla, il nuovo romanzo di Javier Marias (Einaudi, 2018) è impareggiabile. C’è poco da fare: leggere letteratura ci fa capire subito la differenza tra questa e la narrativa di puro intrattenimento, senza bisogno di arrampicarsi sui famosi specchi, anche quelli di Umberto Eco.
La letteratura ha tempi lunghi: una scrittura distesa, che qualcuno dice “verbosa”, profonda, avvolgente, una narrazione che si aggancia e sviluppa temi letterari, come in questo splendido romanzo dove i personaggi, tutti, sono collegati tra loro dai versi di T.S.Eliot, che sono, per i loro ruoli, illuminanti. La letteratura è sempre metaletteratura e qui i rimandi sono a Shakespeare (come sempre in Marias, che ha usato anche celebri frasi shakespeariane per i titoli di alcuni suoi romanzi), a Balzac, e strutturalmente a Omero, perché Berta Isla è una nuova Penelope, il cui Ulisse è un uomo misterioso, un agente segreto che scompare per oltre dieci anni e fa ritorno a casa irriconoscibile, proprio come nel poema omerico. Non a caso Berta si chiama Isla, isola, come l’Itaca in cui la regina tesseva la sua perenne tela, che nel caso di un’eroina moderna è il suo ragionare e ricordare, mantenendo intatta la lealtà a un uomo conosciuto quando entrambi erano ragazzi e si scelsero, cementando una legame indissolubile.
Ma la storia non è soltanto questa. I personaggi spagnoli e inglesi, nati negli anni ’50, permettono all’autore di raccontare il suo paese nel passaggio dal franchismo alla democrazia, di discutere su cosa sia la democrazia, e come si difenda anche attraverso la violenza di Stato, anche attraverso trame segrete. E permette pagine bellissime sulla narrazione, sul fatto che non sia solo la letteratura a raccontare storie, ma il potere, per esempio, per promulgarsi, per ingannare, manipolare, sopire.
Certi libri ti dispiace finirli, vorresti durassero di più (e questo comunque è un romanzo di 470 pagine), ma è anche vero che libri come questo sanno invece lasciarti, e ti restano dentro per molti giorni, poi credo per sempre.