Francesco Costa / AC-Costa al Cinema
IL CONDOMINIO DEI CUORI INFRANTI
Titolo originale: Asphalte; regia e sceneggiatura: Samuel Benchetrit; direttore della fotografia: Pierre Aim; scenografia: Jean Moulin; costumi: Mimi Lempicka; montaggio: Thomas Fernandez; musica: Raphaël Haroche; produzione: Julien Madon, Marie Savare e Ivan Taieb; durata: 100’; nazionalità: Francia; anno: 2016. Interpreti: Isabelle Huppert (Jeanne Meyer), Valeria Bruni Tedeschi (l’infermiera), Michael Pitt (John Mackenzie), Gustave Kervern (Sterkowitz), Tassadit Mandi (Madame Hamida), Jules Benchetrit (Charly).
Non è detto che chiunque sia cresciuto nella periferia di una grande città (come chi scrive) sia necessariamente stato così sfortunato da alloggiare in uno degli appartamenti del condominio che dà il titolo (nella versione doppiata in italiano) a questo film. Situato nella più desolante banlieue di una città francese (siamo a Parigi o forse altrove), l’edificio è scalcinato al di là di ogni possibile descrizione, gli interni sono tetri e soffocanti, i vetri delle finestre sono opachi, l’ascensore non funziona e si ferma senza preavviso, diventando una trappola da cui si esce solo prendendone a calci la porta, gli inquilini sembrano zombies che vagano nel nulla e verso il nulla, e l’infelicità è una condizione che li serra in un bozzolo.
Esaminiamo il campionario umano: c’è Jeanne, attrice cinematografica in declino, divorata dal rimpianto del successo perduto, che ancora si reca ai provini con la pretesa di impersonare donne assai più giovani di lei. Sullo stesso pianerottolo sta di casa l’adolescente Charly, torvo e introverso, abbandonato a se stesso da una madre che non si vede mai. Al primo piano abita il signor Sterkowitz che è brutto, solitario e asociale: sta sulle scatole ai suoi condomini perché non ritiene opportuno contribuire alla spesa per aggiustare l’ascensore. C’è poi un’anziana signora algerina, Madame Hamida, che è rimasta sola perché il suo unico figlio langue in galera. Nessuna di queste anime perse concepisce la minima apertura verso il prossimo: vivono tappate nei loro appartamenti angusti come scatole da scarpe come topolini da laboratorio e campano sul filo di una paralizzante malinconia che impedisce la formulazione di qualsiasi progetto di vita. Tre epifanie stanno però per accendersi come bagliori in grado di illuminare a giorno le misere esistenze degli inquilini del “condominio dei cuori infranti”.
L’immusonito Charly s’incuriosisce di Jeanne e le chiede di vedere i suoi vecchi film. Rapito dal talento dell’attrice, riesce a metterla di fronte al problema dell’età e la convince, al momento di andare a fare un provino per un film sulla vita di Nerone, a proporsi non per il ruolo della quindicenne Poppea (come sarebbe nelle sue intenzioni), ma per quello dell’ottantenne Agrippina. E’ uno dei momenti più esilaranti del film perché Jeanne reagisce ovviamente con una furia indescrivibile, ma Charly riesce a persuaderla con giovanile pragmatismo che la perfida Agrippina, intrigante e assassina, è indubbiamente il personaggio più affascinante del film. E fra questi due porcospini nasce, in modo plausibile e perfino toccante, qualcosa di molto simile all’affetto.
La seconda vicenda s’iscrive nel registro del patetico perché il signor Sterkowitz, inchiodato temporaneamente su una sedia a rotelle, vaga di notte per strade fangose finché s’imbatte in un’infermiera solitaria che fuma davanti all’ingresso dell’ospedale in cui lavora. La donna, laconica e rinunciataria, fa colpo sul disgraziato che, per impressionarla, si finge un fotografo giramondo fino a far breccia nell’amarezza della donna e a strapparle un sorriso che potrebbe anche preludere a una relazione di un certo peso.
La terza epifania, capace di introdurre nella narrazione un accenno di visionarietà riguarda l’anziana Madame Hamida, algerina trapiantata in Francia, che si vede piombare dentro casa addirittura un astronauta della NASA, un ragazzone americano di nome John Mackenzie, che si è perso nello spazio (come la Sandra Bullock di Gravity) ed è inspiegabilmente atterrato sul tetto del tetro condominio. La donna si prende cura del giovane con la struggente tenerezza che non può riservare al figlio, detenuto in un carcere, e la figura di quest’anziana immigrata è così ben concepita nella sua dolcezza e nella sua forza d’animo, così credibile da farci follemente innamorare della sua bravissima interprete, Tassadit Mandi.
Mentre nel nostro cinema (soprattutto nelle commedie) abbondano personaggi cinici e furbi, seppur votati al fallimento, e dilaga incontrollato un profondo disprezzo per i cosiddetti perdenti, nel cinema francese (e in un certo cinema indipendente americano) si esprime invece per i vinti e per gl’indifesi un rispetto e un considerazione che innervano un cinema di grande civiltà e spesso capace di suggestive aperture poetiche.
Semplice, talvolta gracile, ma stilisticamente coerente, Il condominio dei cuori infranti scorre senza intoppi fino alla sua speranzosa conclusione e va sottolineata nella sceneggiatura, senza soffermarsi sull’apporto di un cast in stato di grazia, la capacità di allineare alcune trovate non peregrine come lo strano rumore che risuona frequentemente nelle adiacenze del fatiscente edificio e che, paradossalmente, ogni inquilino interpreta a modo suo, vedendovi di volta in volta il pianto di un neonato, l’urlo di una donna, il ruggito di una tigre. La reale natura di questo impressionante rumore, svelata soltanto nella scena finale, è un vero e proprio colpo di scena, ed è sostanzialmente un tributo alla forza dell’umana immaginazione, e d’altronde non ci sarebbe da stupirsene, visto che nell’ormai lontano Sessantotto si preconizzava appunto un mondo in cui potesse salire al potere proprio l’immaginazione.
Francesco Costa