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Archivio mensile:aprile 2016

Libernauta16LIBERNAUTA, sedicesima edizione: ce l’abbiamo fatta a organizzarlo e tra pochi giorni comincerà ufficialmente nelle biblioteche e nelle scuole della provincia di Firenze.

Cos’è? Un concorso di lettura per ragazzi dai 14 ai 20 anni. Facilissimo. Si va in biblioteca, si sceglie uno o più libri o anche tutti quelli proposti (15 indicati da una commissione di esperti, insegnanti, bibliotecari, animatori + 1 indicato dai ragazzi), si leggono, si scrive una breve recensione, e si può vincere viaggi, buoni per acquisto libri, biglietti per concerti o spettacoli…

Ma chi vince? Vincono i lettori. Non è un premio letterario per il miglior libro o il migliore autore. E’ un concorso per i lettori, che sono protagonisti assoluti. Sono loro che nel corso del progetto realizzano video-clip, drammatizzazioni, libretti, interviste, che incontrano gli scrittori e ne discutono. Anche alla radio, anche sui loro blog come “Qualcuno con cui correre” tenuto rigorosamente da adolescenti lettori.

Come si svolge? Quest’anno si ricomincia con un modulo diverso. Non più durante l’anno scolastico, ma durante l’estate. La lista dei libri verrà presentata domani, nel corso di una conferenza stampa, sarà diffusa dalle biblioteche del circuito provinciale e sarà presentata nelle scuole dal gruppo Gli Allibratori. Poi, nei lunghi mesi estivi, ci sarà tempo sufficiente per leggere e riflettere e dare la propria opinione. Da settembre fino a novembre ci saranno gli incontri con gli scrittori, le interviste, i laboratori e a dicembre si terrà la premiazione dei lettori.

Ce l’abbiamo fatta, noi tenaci e convinti promotori della lettura e cioè io, Loredana Lipperini e Matteo Biagi del comitato scientifico, i bibliotecari irriducibili del Sistema bibliotecario della provincia di Firenze, gli instancabili animatori del gruppo Allibratori, gli entusiasti insegnanti delle scuole superiori e i tanti giovanissimi libernauti che ci seguono, ci credono.

Tutti pronti? Si decolla nell’interspazio della letteratura!

Francesco CostaFrancesco Costa  /  AC-Costa al Cinema

 

 


 

 

 

nemicheNEMICHE PER LA PELLE

Regia: Luca Lucini; sceneggiatura: Doriana Leondeff e Francesca Minieri; direttore della fotografia: Claudio Cofrancesco; scenografia: Luca Servino; costumi: Monica Celeste; montaggio: Massimo Fiocchi; musica: Fabrizio Campanelli; produzione: Donatella Botti; durata: 92’; nazionalità: Italia; anno: 2016.

Interpreti: Margherita Buy (Lucia), Claudia Gerini (Fabiola), Giampaolo Morelli (Giacomo), Paolo Calabresi (Stefano), Andrea Bosca (Ruggero), Gigio Morra (Attilio).

Stanchezza, luoghi comuni, totale assenza di senso: ecco il cinema italiano che non si vorrebbe più vedere. Lanciato come un film al “femminile” (essendo scritto da donne e imperniato su un conflitto fra donne) come se ciò fosse di per sé sinonimo di qualità, Nemiche per la pelle è, al contrario, un richiamo a un maggiore senso di responsabilità da parte degli autori cinematografici (maschi o femmine che siano) che, anche considerando la crisi economica che ci grava addosso da anni, dovrebbero spremersi le meningi per servire al pubblico qualcosa di sostanzioso che lo faccia davvero riflettere o divertire o commuovere, e non un canovaccio ammuffito che sembra esserci stato propinato già infinite volte.

Di che cosa tratta l’insulsa operino? Nato da un soggetto cui ha messo mano anche una delle due protagoniste del film, l’attrice Margherita Buy (alla quale vorremmo umilmente suggerire di astenersi da ulteriori escursioni nel campo della scrittura per non aderire alla pessima usanza tutta italiana secondo la quale tutti si sentono in grado di scrivere senza però mai arrisicarsi a leggere un libro), Nemiche per la pelle mette in scena due donne non più giovanissime. La prima è la slavata Lucia (Buy, ovviamente) che parla con gli animali, mangia solo gallette di riso ed è schiava del politically correct, e l’altra è l’agente immobiliare Fabiola (Claudia Gerini), vistosa, pacchiana, attaccata al soldo. Le due signore, dissimili fra loro con l’evidenza che solo l’aderenza a un cliché può consentire, sono unite da un’esperienza comune: sono state sposate con lo stesso uomo, Lucia per dodici anni e Fabiola per otto, e si ritrovano al di lui funerale per poi apprendere, esterrefatte, che il disgraziato ha lasciato loro in affidamento un bambino da lui concepito in gran segreto con una donna cinese, a sua volta deceduta da qualche tempo. Essendo potenzialmente entrambe pessime madri (per un motivo o per l’altro nessuna delle due ha voluto figli o ha dimestichezza con i bambini), Lucia e Fabiola sono quindi costrette a condividere la responsabilità di crescere il cinesino senza ovviamente essere mai d’accordo su niente: né su come alimentarlo né sui giorni in cui tenerlo e neanche su come organizzare il suo avvenire. Era davvero uno sciagurato il loro defunto marito a ritenere possibile, dopo averle giudicate insopportabili come mogli, che le due infelici potessero riscattarsi almeno come madri.

La sceneggiatura (opera di due professioniste che si sono segnalate in passato per lavori di più dignitoso livello) inanella faticosamente quelli che si vorrebbe definire colpi di scena (mamma, che paroloni!), lasciando disinvoltamente cadere promettenti piste narrative (si vorrebbe sapere di più, per esempio, sul padre di Fabiola) e fa sbucare dal nulla suore abiette, perfidi assistenti sociali e severi magistrati come conigli dal cilindro di un mago per far sì che, timorose di perdere il piccino cui si sono infine entrambe affezionate, le due scellerate uniscano finalmente le loro forze per battersi contro una legge iniqua che non tiene in alcun conto i loro sentimenti.

Di durata media, ma apparentemente interminabile come tutti i film che non decollano mai, Nemiche per la pelle finisce così col basarsi quasi interamente sull’apporto recitativo delle due interpreti principali che si limitano a rimodulare il “tipo” che le ha rese famose, la nevrotica in sospetto di frigidità e la vamp aggressiva (ma la Gerini ci dà dentro con maggior convinzione) e non si capisce perché, non foss’altro che per regalare a noi una piccola sorpresa e a stesse il gusto di sperimentare nuove strade, non abbiano provato almeno a scambiarsi i ruoli con la Buy nel ruolo della cafona esuberante e l’altra a fare la scialba veterinaria che parla con i cani e con i defunti. Ma no, neanche questo minimo scarto è previsto in un’operazione che si prefigge di bandire accuratamente tutto ciò che può risultare emozionante o imprevedibile.

Unico maschio nel poco ispirato gineceo (a parte gli sventurati attori chiamati a impersonare le figure maschili che sono soltanto macchiette), Luca Lucini torna al lavoro a cinque anni di distanza dall’ultima regia con un contributo perfettamente intonato al contesto, cioè incolore e privo di mordente, anche se dispiace dirlo, e la stessa piattezza caratterizza fotografia, scenografie e costumi. Il film potrebbe trovare anche un suo pubblico, non è da escludere, in una serata piovosa in cui la televisione non trasmetta niente di meglio, se non altro perché le due interpreti sono diventate nel corso degli anni le indiscusse beniamine di assai vaste platee, ma ci si chiede per quale motivo Nemiche per la pelle sprigioni contemporaneamente un senso di fiacchezza e un’impressione di sufficienza. E’ evidente che i realizzatori (e qui ci si riferisce soprattutto alla produzione) danno per scontato il loro diritto a sciupare senza rimorsi l’occasione di fare qualcosa di stuzzicante, se non memorabile, e non si rendono evidentemente conto di godere di un invidiabiie privilegio, quello di poter mettere in piedi in tempi presumibilmente brevi un film in un periodo in cui il talento trova (più del solito) immense difficoltà a imporsi al di fuori delle logiche di potere.

Francesco Costa

IMG_5531 IMG_5532Progetto Lettura sopravvive nelle scuole grazie alla tenacia e alla passione di sparuti gruppi di insegnanti e di capi d’istituto che credono nella capacità formativa della letteratura contemporanea e del lavoro sul testo svolto a scuola, insieme, seguendo le molte sollecitazioni inventive che ogni testo è capace di offrire.

Un esempio molto interessante, che mi ha colto di sorpresa, è quello offertomi dalla scuola media “Leopardi” di Jesi dove i professori e la preside hanno attivamente lavorato a un progetto che ha coinvolto gli studenti delle terze medie, basandosi su “Zorro nella neve” (Il Castoro). Il libro è diventato strumento di riflessione semantica, come si può fare a scuola, ha offerto spunti di autoriflessione su alcuni temi (il coraggio, i sentimenti, l’odore come traccia biografica), ma ha portato anche a realizzare pagine di scrittura narrativa (un nuovo punto di vista interno al romanzo), e all’elaborazione di un video a seguito di una visita al canile municipale, dove gli studenti hanno scoperto “il mondo di Mary”, cioè della volontaria che si occupa dei cani abbandonati nel mio romanzo. Un secondo video (meno studiato del primo, più occasionale), è stato girato durante l’esercitazione offerta dalla polizia con le unità cinofile: la realtà praticamente si apriva oltre le pagine del romanzo, confermando il contesto realistico in cui è stato ambientato.

Inoltre, gli studenti hanno scelto brani e li hanno letti ad alta voce seguendo le orme tracciate sul pavimento della sala dove si è tenuto l’incontro, in una drammatizzazione accompagnata dalla musica eseguita dal vivo da un gruppo di ragazzi.

Bellissimo e interessante anche il “prodotto” che mi hanno regalato e cioè un grosso contenitore a forma di libro, intitolato Frammenti di Bio(dori)grafie, che racchiudeva oggetti che provocano o mantengono un preciso, inconfondibile odore e che sono in grado di rievocare ricordi: la pallina, lo spray solare, un dopobarba, le figurine, la carta del libro, il bagnoschiuma… Su questi odori speciali, i ragazzi hanno scritto pagine intense e toccanti, in certi casi migliori di tante pagine che si leggono nei libri per “grandi”, lontani ormai anni luce dalla grazia della sinestesia.

Francesco CostaFrancesco Costa  /  AC-Costa al Cinema

 

 


 

 

 

veloceventoVELOCE COME IL VENTO

Regia: Matteo Rovere; sceneggiatura: Filippo Gravino, Francesca Manieri, Matteo Rovere; direttore della fotografia: Michele D’Attanasio; scenografia: Alessandro Vannucci; costumi: Cristina La Parola; montaggio: Gianni Vezzosi; musica: Andrea Farri; produzione: Domenico Procacci; durata: 119’; nazionalità: Italia; anno: 2016.  Interpreti: Stefano Accorsi (Loris), Matilda De Angelis (Giulia), Roberta Mattei (Annarella), Paolo Graziosi (Tonino), Giulio Pugnaghi (Nico), Lorenzo Gioielli (Ettore Minotti).

Il cinema italiano si è ringiovanito tutt’a un tratto. E’ anzi diventato bambino. Grembiulini e tettarelle ne accompagnano l’approccio al fantastico, al fiabesco, al fumetto e ad altri generi cinematografici che sembravano stipati per sempre nel baule dei ricordi. Il perentorio, e per certi versi sorprendente, successo di Lo chiamavano Jeeg Robot, meritatamente candidato a svariati David di Donatello, sembra aver dischiuso la porta a un cinema che mira ad attrarre platee giovanili con storie e stilemi di cui non si trovava traccia nella produzione italiana degli ultimi trent’anni. C’è il timido accenno di un’inversione di tendenza: nelle sale cinematografiche torna, anche se con la debita cautela, un pubblico che era stato messo in fuga dal mortifero proliferare di opere pretenziose e autoreferenziali.

Dopo la morte dei grandi maestri del cinema italiano, quelli che ne hanno scritto le pagine più gloriose e hanno fatto man bassa di premi Oscar e di Palme d’Oro, Leoni d’Oro e Orsi d’Oro, c’è stata una sorta di egemonia culturale governata per trent’anni da registi giovani ma con ben poco di giovanile, precocemente arcigni e ostinatamente moraleggianti, interessati soprattutto alla propria biografia e sottilmente misogini, autori di film molto simili fra loro, interpretati sempre dagli stessi attori, prevalentemente ambientati a Roma negli appartamenti di una borghesia mai sfiorata dal dubbio di essere arida e chiusa al resto del mondo: insomma, un incubo!

E’ in arrivo quindi, per la fatale necessità dei contrappesi, una generazione di registi bambini? Matteo Rovere viene da due sonori flop , Un gioco da ragazze (2008) e Gli sfiorati (2011), che risentivano evidentemente di una fondamentale sudditanza nei confronti di un modo di fare cinema che stava per entrare in crisi. Rampollo di una Roma privilegiata e spesso arrogante, il giovane Rovere si era in realtà cimentato in esercizi di cinismo e di critica sociale che suonavano alquanto sterili e fondamentalmente non interessavano a nessuno.

Ispirandosi a una storia vera e tornando alle proprie origini emiliane, e compiendo una vera rivoluzione nel proprio percorso professionale, Matteo Rovere con Veloce come il vento fissa la propria attenzione su una vicenda di povertà e di riscatto: Giulia (impersonata da una strepitosa Matilda De Angelis, una sorta di Jennifer Lawrence italiana, e vero punto di forza del film) discende da una schiatta di corridori automobilistici e vuole a sua volta diventare campionessa. Rimasta orfana di padre e con un fratellino a carico, si vede piombare dentro casa una presenza molesta. Il fratello maggiore Loris, tossicodipendente da anni, pretende di vivere con lei insieme ad Annarella, sua degna compagna che è impietoso, ma non inesatto, definire un relitto umano. Inutile dire che la convivenza della malassortita brigata è burrascosa. Le liti fra Giulia e Loris sono all’ordine del giorno. I due intrusi portano caos e rovina laddove Giulia ha bisogno di pace e di concentrazione per allenarsi. Loris è a sua volta un ex campione automobilistico poi scivolato nella dipendenza dalla droga (il personaggio è ispirato al tormentato Carlo Capone che dai trionfi automobilistici degli anni Ottanta è finito con un ricovero in una struttura psichiatrica) e la sorpresa è che si rivela perfettamente in grado, complice un fiuto infallibile e l’evidente gusto per il rischio, di portare la sorella al successo. Non tutto andrà liscio, ovviamente, e continui alti e bassi caratterizzeranno la relazione fra Loris e Giulia, anche per l’instabilità mentale di lui. Con una sapienza che appare debitrice di certo cinema americano, la sceneggiatura mira a inanellare numerosi colpi di scena che si susseguono nella seconda parte del racconto (talvolta, però, telefonati con troppo anticipo e quindi un po’ meccanici) fino a una conclusione non del tutto disperante. Si può rimproverare al film una concezione ingenua e perfino fiabesca del personaggio di Loris che, pur essendo schiavo della droga, non ruba, non minaccia, non s’infuria, non è mai pericoloso, e tutto sommato rimane soltanto un invadente, ma simpatico mattacchione (il personaggio cui s‘ispira ha avuto, non a caso, una parabola umana decisamente più tragica), ma queste riserve non autorizzano a trascurare un apporto interpretativo, quello di Stefano Accorsi, che ha qualcosa di eroico: dimagrito, tatuato, lercio e sconnesso, il suo Loris resta impresso e dovrebbe guadagnargli un riconoscimento.

Il cinema italiano, si diceva, è tornato bambino: affronta temi disturbanti come la solitudine, l’emarginazione e le dipendenze da stupefacenti, ma sabotandone dall’interno (complice il ricorso a generi narrativi come il fumetto o la fiaba) l’inevitabile carica di drammaticità per non creare disagi eccessivi negli spettatori: non è però da escludere che un percorso di maturazione sia già in atto e che, sulla scorta dei grandi classici, si ritrovi finalmente la magica alchimia in grado di fondere leggerezza e spessore.

 

Francesco Costa

fotocopiaMi domando quanta potenza dovrei imprimere nei miei romanzi, quali parole formidabili dovrei inserire, che tocchino i lettori, li facciano vibrare anche quando leggono le mie storie tramite fotocopie?

Perché un conto è leggere un romanzo, un racconto o una poesia in un libro, in un oggetto cioè che è stato (spesso lungamente) pensato in un formato, con una carta, un’impaginazione, con una copertina spesso bellissima ed evocativa della storia, un oggetto che ha dimensioni compatte, che si apre e si chiude come un cofanetto di gioielli, si sfoglia, e volendo si scorre avanti e indietro. Un altro è leggere la stessa storia su fogli sparsi, spillati insieme in un angolo, a volte grigiastri, di sicuro poco incoraggianti e soprattutto somiglianti alle dispense scolastiche, o ai questionari di valutazione.

Allora: che salto deve fare la mente del lettore per non associare la mia storia a un test Invalsi o alla parte di un saggio di storia o scienze fotocopiato (se nei giusti termini di legge e cioè non l’intero testo) in biblioteca?

Mi si dirà: ma lo dici anche tu che il lettore legge tutto su ogni supporto, quindi… Ma il lettore come me non ama leggere in fotocopia, non c’è dubbio che legga su un tablet come su un libro, ma oggi trova comunque sempre superiore il libro al tablet, che è molto più rigido e meno gratificante della pagina che si sfoglia. Il lettore come me poi è un lettore fortissimo, che legge circa 3 ore al giorno, a volte anche di più, mentre il lettore ragazzino non sempre è così forte, va anzi catturato, conquistato e dubito che si possa farlo con un pacchetto di fotocopie. Il lettore merita il meglio, merita un bellissimo libro.

Francesco CostaFrancesco Costa  /  AC-Costa al Cinema


ILimm CONDOMINIO DEI CUORI INFRANTI

Titolo originale: Asphalte; regia e sceneggiatura: Samuel Benchetrit; direttore della fotografia: Pierre Aim; scenografia: Jean Moulin; costumi: Mimi Lempicka; montaggio: Thomas Fernandez; musica: Raphaël Haroche; produzione: Julien Madon, Marie Savare e Ivan Taieb; durata: 100’; nazionalità: Francia; anno: 2016.  Interpreti: Isabelle Huppert (Jeanne Meyer), Valeria Bruni Tedeschi (l’infermiera), Michael Pitt (John Mackenzie), Gustave Kervern (Sterkowitz), Tassadit Mandi (Madame Hamida), Jules Benchetrit (Charly).

Non è detto che chiunque sia cresciuto nella periferia di una grande città (come chi scrive) sia necessariamente stato così sfortunato da alloggiare in uno degli appartamenti del condominio che dà il titolo (nella versione doppiata in italiano) a questo film. Situato nella più desolante banlieue di una città francese (siamo a Parigi o forse altrove), l’edificio è scalcinato al di là di ogni possibile descrizione, gli interni sono tetri e soffocanti, i vetri delle finestre sono opachi, l’ascensore non funziona e si ferma senza preavviso, diventando una trappola da cui si esce solo prendendone a calci la porta, gli inquilini sembrano zombies che vagano nel nulla e verso il nulla, e l’infelicità è una condizione che li serra in un bozzolo.

Esaminiamo il campionario umano: c’è Jeanne, attrice cinematografica in declino, divorata dal rimpianto del successo perduto, che ancora si reca ai provini con la pretesa di impersonare donne assai più giovani di lei. Sullo stesso pianerottolo sta di casa l’adolescente Charly, torvo e introverso, abbandonato a se stesso da una madre che non si vede mai. Al primo piano abita il signor Sterkowitz che è brutto, solitario e asociale: sta sulle scatole ai suoi condomini perché non ritiene opportuno contribuire alla spesa per aggiustare l’ascensore. C’è poi un’anziana signora algerina, Madame Hamida, che è rimasta sola perché il suo unico figlio langue in galera. Nessuna di queste anime perse concepisce la minima apertura verso il prossimo: vivono tappate nei loro appartamenti angusti come scatole da scarpe come topolini da laboratorio e campano sul filo di una paralizzante malinconia che impedisce la formulazione di qualsiasi progetto di vita. Tre epifanie stanno però per accendersi come bagliori in grado di illuminare a giorno le misere esistenze degli inquilini del “condominio dei cuori infranti”.

L’immusonito Charly s’incuriosisce di Jeanne e le chiede di vedere i suoi vecchi film. Rapito dal talento dell’attrice, riesce a metterla di fronte al problema dell’età e la convince, al momento di andare a fare un provino per un film sulla vita di Nerone, a proporsi non per il ruolo della quindicenne Poppea (come sarebbe nelle sue intenzioni), ma per quello dell’ottantenne Agrippina. E’ uno dei momenti più esilaranti del film perché Jeanne reagisce ovviamente con una furia indescrivibile, ma Charly riesce a persuaderla con giovanile pragmatismo che la perfida Agrippina, intrigante e assassina, è indubbiamente il personaggio più affascinante del film. E fra questi due porcospini nasce, in modo plausibile e perfino toccante, qualcosa di molto simile all’affetto.

La seconda vicenda s’iscrive nel registro del patetico perché il signor Sterkowitz, inchiodato temporaneamente su una sedia a rotelle, vaga di notte per strade fangose finché s’imbatte in un’infermiera solitaria che fuma davanti all’ingresso dell’ospedale in cui lavora. La donna, laconica e rinunciataria, fa colpo sul disgraziato che, per impressionarla, si finge un fotografo giramondo fino a far breccia nell’amarezza della donna e a strapparle un sorriso che potrebbe anche preludere a una relazione di un certo peso.

La terza epifania, capace di introdurre nella narrazione un accenno di visionarietà riguarda l’anziana Madame Hamida, algerina trapiantata in Francia, che si vede piombare dentro casa addirittura un astronauta della NASA, un ragazzone americano di nome John Mackenzie, che si è perso nello spazio (come la Sandra Bullock di Gravity) ed è inspiegabilmente atterrato sul tetto del tetro condominio. La donna si prende cura del giovane con la struggente tenerezza che non può riservare al figlio, detenuto in un carcere, e la figura di quest’anziana immigrata è così ben concepita nella sua dolcezza e nella sua forza d’animo, così credibile da farci follemente innamorare della sua bravissima interprete, Tassadit Mandi.

Mentre nel nostro cinema (soprattutto nelle commedie) abbondano personaggi cinici e furbi, seppur votati al fallimento, e dilaga incontrollato un profondo disprezzo per i cosiddetti perdenti, nel cinema francese (e in un certo cinema indipendente americano) si esprime invece per i vinti e per gl’indifesi un rispetto e un considerazione che innervano un cinema di grande civiltà e spesso capace di suggestive aperture poetiche.

Semplice, talvolta gracile, ma stilisticamente coerente, Il condominio dei cuori infranti scorre senza intoppi fino alla sua speranzosa conclusione e va sottolineata nella sceneggiatura, senza soffermarsi sull’apporto di un cast in stato di grazia, la capacità di allineare alcune trovate non peregrine come lo strano rumore che risuona frequentemente nelle adiacenze del fatiscente edificio e che, paradossalmente, ogni inquilino interpreta a modo suo, vedendovi di volta in volta il pianto di un neonato, l’urlo di una donna, il ruggito di una tigre. La reale natura di questo impressionante rumore, svelata soltanto nella scena finale, è un vero e proprio colpo di scena, ed è sostanzialmente un tributo alla forza dell’umana immaginazione, e d’altronde non ci sarebbe da stupirsene, visto che nell’ormai lontano Sessantotto si preconizzava appunto un mondo in cui potesse salire al potere proprio l’immaginazione.

Francesco Costa