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Archivio mensile:gennaio 2016

IMG_5109Grazie a Severino Colombo che ne La Lettura del Corriere della Sera (in edicola questa settimana) dedica una doppia pagina illustrata ai “campioni delle vendite” che salvano l’editoria italiana e cioè gli scrittori italiani per ragazze e ragazzi.

Finalmente si dicono alcune importanti verità: che il settore ragazzi è in aumento, rispetto alla tragica debacle della lettura nel nostro paese; e che gran parte di questo merito si deve a una pattuglia di scrittori, della quale sono onorata di far parte, che da decenni perseguono linee narrative personali, che hanno inventato personaggi (Stilton, per esempio, il topo da decine di milioni di copie), serie ambientate in Italia, non necessariamente fantasy (come la mia Banda delle ragazzine che è arrivata a 120.000 copie), saghe (come quelle di Licia Troisi o di Baccalario) e che non si sono mai demoralizzati in anni assai difficili, e hanno continuato nel loro lavoro di “cercatori di storie” anche controcorrente e difficili (come Francesco D’Adamo o Fabio Geda).

Siamo scrittori non improvvisati, che fanno questo mestiere (e non è il secondo o terzo mestiere), con determinazione, immaginazione, studio del linguaggio, senso dell’intreccio e storie dedicate ai giovanissimi, che sanno parlare a loro e agli adulti. Siamo anche autori che non disdegnano il “mercato” con cui anzi ci confrontiamo sempre, anche attraverso gli incontri che teniamo con i ragazzi e le ragazze in tutta Italia, nelle scuole, nelle librerie e nelle biblioteche. Siamo scrittori che non vanno in televisione, non godono dell’aiuto dei formidabili mezzi di comunicazione concentrati sui personaggi e sugli scrittori di narrativa adulta, che a volte, rispetto a noi, sembrano scollati dalla realtà. Sarà per questo che siamo amati: perché non siamo montature, ma persone serie, che lavorano tanto, e che sostengono, oltre alla nostra editoria, la nostra cultura con entusiasmo e senza la fatua pretesa di apparire.

 

1452098_635743198919369853_francesco_costa_299x389Francesco Costa  / AC-Costa al Cinema

 

 


 

 

steve_jobs_locSTEVE JOBS

Titolo originale: id.; regia: Danny Boyle; sceneggiatura: Aaron Sorkin, dal libro di Walter Isaacson; direttore della fotografia: Alwin H. Küchler; scenografia: Guy Hendrix Dyas; costumi: Suttirat Anne Larlab; montaggio: Elliot Graham; musica: Daniel Pemberton; produzione: Danny Boyle, Guymon Casady, Christian Colson, Mark Gordon e Scott Rudin; durata: 122’; nazionalità: Usa; anno: 2016.

Interpreti: Michael Fassbender (Steve Jobs), Kate Winslet (Joanna Hoffman), Seth Rogen (Steve Wozniak), Jeff Daniels (John Sculley), Katherine Waterston (Chrisann Brennan), Perla Haney-Jardine (Lisa Brennan).

Sulla movimentata esistenza di Steve Jobs, fondatore della celebre fabbrica di computer Apple scomparso a soli 56 anni nel 2011, era già stato realizzato un film con Ashton Kutcher, passato del tutto inosservato, e anche questa seconda versione firmata da Danny Boyle non era stata esattamente un successo di botteghino alla sua uscita nelle sale, ma il consenso dei critici e una grandinata di candidature prima al Golden Globe e poi al premio Oscar l’hanno aiutata a riscuotere anche un crescente favore da parte del pubblico.

Si può intanto affermare senza timore di sbagliarsi che Steve Jobs spartisce con il farsesco Uno, due, tre (diretto nel 1961 a Berlino da Billy Wilder) il primato del film più parlato della storia del cinema. Dialoghi incalzanti, un continuo botta e risposta, personaggi che sbraitano l’uno contro l’altro, ed è scontato che tutto questo richiede un cast di suprema bravura, perché il ritmo non rallenti, ma il film di Danny Boyle è al riguardo inattaccabile: il fantastico Michael Fassbender, candidato al premio Oscar per il ruolo di Steve, ha un talento che gli permette di affrontare qualsiasi sfida, e intorno a lui si allinea uno stuolo di straordinari comprimari, fra i quali spicca la superlativa Kate Winslet, già premiata con il Golden Globe e nominata per l’Oscar alla miglior attrice non protagonista, nei panni di Joanna Hoffman che di Jobs era la segretaria, il braccio destro, la confidente, il Grillo Parlante, un mentore insostituibile e tante altre cose…

Il film è rigorosamente suddiviso in tre atti ciascuno dei quali corrisponde a una data fatidica nell’inarrestabile scalata al successo di Steve Jobs perché vi si annunciava il lancio sul mercato di un prodotto che avrebbe fatto epoca: nel 1984 il Macintosh, nel 1988 NeXT Computer e nel 1998 l’iMac. In tutt’e tre le occasioni si rincorrono tensioni e ripicche, inganni e tradimenti, battibecchi incessanti e pretese (da parte di Steve) talvolta irragionevoli: se la parte iniziale richiede forse un’attenzione particolare e magari anche una preparazione specifica per essere compresa, la seconda parte si concentra fortunatamente sugli aspetti più intimi della personalità di Steve Jobs, un egocentrico narcisista che era incline all’anaffettività anche a causa della sua tribolata infanzia di trovatello. Bambino abbandonato da una madre single e poi adottato da Paul e Clara Jobs dopo essere stato rifiutato ad appena un mese di età da altri due coniugi, aveva serie difficoltà ad abbandonarsi ai sentimenti e per anni ha negato di essere il padre della piccola Lisa, avuta da una pittrice visibilmente squilibrata, e si è deciso a riconoscerla soltanto nel 1986. E’ l’aspetto più coinvolgente del film che culmina in un finale sorprendentemente toccante quando, sotto gli occhi della fida Joanna, il riottoso Steve e sua figlia Lisa riescono a creare un’intesa reale dopo l’ennesimo scontro, e va detto che è indagata con grande finezza la complessa relazione fra padre e figlia (senza dimenticare il miracolo di scegliere per il ruolo Lisa tre meravigliose attrici perché il personaggio ha un’età diversa, passando dai 5 ai 19 anni, in ciascuno dei tre atti che scandiscono il racconto), ma la vera sfida che il film vince è che, nonostante duri due ore e sia prevalentemente girato in interni, la storia fila come un treno e non conosce un momento di noia, quando tutti sappiamo che disgraziatamente ci capita spesso di incappare in film che durano soltanto ottanta minuti e sembrano lunghi oltre due ore.

Il merito di questa riuscita non risiede tanto nella pur dinamica regia di Danny Boyle o nelle formidabili prestazioni degli interpreti quanto in una sceneggiatura impeccabile (scritta da Aaron Sorkin) che andrebbe fatta studiare non soltanto a chiunque voglia firmare i dialoghi di un film, ma anche e soprattutto ai produttori che si assumono spesso la responsabilità di immettere sul mercato cinematografico (ovviamente per pochi giorni perché il pubblico non abbocca, essendo meno scemo di quanto loro sperano) pellicole senza capo né coda, con eroi e sentimenti di plastica. Storie a una dimensione, insomma: la complessità continua a fare paura.

Francesco Costa

 

lialeviMercoledì prossimo, il 27, si celebra la Giornata della Memoria per ricordare la Shoah. Nelle scuole italiane sarà l’occasione per ricordare cosa avvenne nel nostro paese prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, sotto il Fascismo, un periodo che a molti giovani sembrerà remoto come le Guerre puniche.

Ma ad accompagnare molti fortunati studenti nel percorso della memoria, ci sarà una meravigliosa scrittrice, Lia Levi, che ci ha donato in questi ultimi anni bellissimi romanzi per ragazzi e per adulti. Sono storie che attingono al suo vissuto, ai suoi ricordi di bambina e ragazza, alla sua famiglia, ma questo materiale biografico è coniugato con ricchezza immaginativa, ironia, e un ampliamento della visuale personale a un’esperienza collettiva, a un sentire condiviso e a vere e proprie avventure ambientate in anni che si vorrebbero cancellare per quel processo di rimozione, di minimizzazione se non di negazione, a favore di un’immagine più rassicurante e buonista di un paese che,oltre a imbarcarsi in una catastrofica guerra, promulgò vergognose leggi razziali.

E’ l’occasione quindi di leggere il romanzo di Lia Levi appena ripubblicato da edizioni e/o, Tutti i giorni di tua vita, una storia familiare che inizia negli anni ’20 dello scorso secolo, e che ci piacerebbe diventasse un film o anche una serie televisiva, essendoci qui tutti gli elementi perfetti per le serie: i “signori” e la gente semplice, il contesto politico come sfondo a vicende personali e familiari, le donne protagoniste che svolgono ruoli diversi oltre a quelli previsti dal regime di madri e figure docili, gli amori, il tradimento, l’irrompere della tragedia, le scelte e il futuro che sarà.

arcanoéPer i bambini, che Lia Levi ha sempre considerato il suo pubblico più schietto e generoso, è uscito per Piemme “Quando tornò l’Arca di Noè” (con le belle illustrazioni di Desideria Guicciardini) dove le storie della Bibbia raccontate dalla maestra Anna si trasformano in stimoli per progettare la salvezza in quel funesto 1943. Come dire che le storie contribuiscono a salvarci la vita.

 

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Francesco Costa   /   AC-Costa al Cinema


Ettore scola

ETTORE SCOLA (1931-2016)

Se in futuro sul nostro pianeta dovessero atterrare flottiglie di astronavi aliene per scoprire che cosa fosse l’Italia negli anni Settanta e Ottanta, non dovrebbero consultare le filmografie di registi che hanno svelato le loro fisime pretendendo di attribuirle a un’intera generazione, ma quella dell’incommensurabile Ettore Scola che più di chiunque altro è stato il cantore smaliziato, ma partecipe, dei pregi e dei difetti della sua gente.

Capace di declinare in modo del tutto personale la tradizione della commedia all’italiana, il regista è stato l’esponente più rappresentativo di un cinema popolare nell’accezione più alta del termine, visibilmente influenzato dalla lettura di grandi classici della narrativa francese e russa, e alcuni suoi film sono tratti da famosi romanzi, fra cui Passione d’amore (1981), ispirato al conturbante Fosca di Igino Ugo Tarchetti.

Trasferitosi a Roma con la famiglia dalla natìa Trevico, a soli quindici anni disegnava vignette satiriche per il celebre periodico Marc’Aurelio al quale aveva già collaborato Federico Fellini, ma il suo interesse era già orientato verso la sceneggiatura cinematografica. Dopo aver scritto con parecchi registi (particolarmente proficuo il sodalizio con il sensibile Antonio Pietrangeli), era stato inevitabile l’esordio alla regia. Il successo internazionale gli è arriso con l’immortale C’eravamo tanto amati (1974), trent’anni di storia italiana attraverso le vicissitudini di tre amici, due dei quali innamorati della stessa donna. Nel 1977 per Una giornata particolare ha riunito la celebre coppia Sophia Loren-Marcello Mastroianni (apparsa in tanti film di Blasetti e De Sica) nei panni di una casalinga analfabeta e di un omosessuale, umiliati, sfioriti e lasciati soli in un condominio il 3 maggio 1938, durante la visita a Roma di Adolf Hitler.

Raccontare vicende individuali di persone in difficoltà all’ombra di grandi eventi storici era d’altronde la sua originale cifra di narratore: a tal riguardo si ricorda Il mondo nuovo (1982) che immagina gli effetti della vana fuga di Luigi XVI a Varennes (20 giugno 1791) su un gruppo di viaggiatori, fra cui spicca l’ormai decrepito Giacomo Casanova (un eccelso Mastroianni). La terrazza (1981), tristemente profetico, narra disillusioni e compromessi della borghesia di sinistra a Roma, e non si può sorvolare sul magnifico La famiglia (1987), che narra ottant’anni di vita di una famiglia del quartiere Prati. Quasi tutti capolavori o comunque opere che mai perderanno il loro smalto e la loro verità, e che a Scola hanno procurato ben quattro candidature al premio Oscar (peccato non averlo vinto almeno per Una giornata particolare) e un riconoscimento per la miglior regia al festival di Cannes per il controverso Brutti, sporchi e cattivi (1976).

Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi erano i suoi interpreti favoriti, presenze quasi fisse nei suoi film, ma non sarebbe giusto ignorare la finezza con cui delineava i personaggi femminili e i bei ruoli offerti ad attrici stupende: della Loren si è detto, ma una presenza costante del suo cinema è Stefania Sandrelli, e fra le italiane gli devono molto Giovanna Ralli, Isabella Ferrari e Laura Betti, mentre in altri suoi lavori recitano fascinose attrici straniere come Fanny Ardant, Hanna Schygulla, Marina Vlady. La presenza della donna era nel suo cinema un imprescindibile punto di forza. A Ettore Scola, scomparso a 84 anni in un ospedale romano, un doveroso grazie per quanto gli deve la cultura italiana: il cinema ha perso un grande regista.

Francesco Costa

bolanoNotturno cileno di Roberto Bolano è appena stato pubblicato da Adelphi. In realtà è uscito nel 2000 in Spagna (Bolano, cileno, viveva a Barcellona dove è morto nel 2003 a cinquant’anni). Si tratta di un racconto lungo, poco più di 120 pagine scritte fittissime, senza un capoverso, quasi per non dare tregua al lettore che si troverà avvinto nel monologo di un uomo che sta per morire e fa i conti con la sua vita.

Si tratta di un prete, con la grande passione per la letteratura, al punto da diventare critico letterario e far parte di una cerchia di intellettuali e artisti cileni pre-golpe e poi anche durante la dittatura di Pinochet. Padre Sebastien non si interessa di politica, e non vuole sapere niente della tragedia che si sta consumando. Addirittura è ingaggiato dalla giunta golpista per tenere lezioni sul marxismo, perché Pinochet e i suoi generali vogliono capire, sapere di cosa si tratta. Nella grande villa dove il prete si reca spesso a parlare di letteratura, si celano segrete con prigionieri torturati, e soltanto in seguito il prete saprà che il proprietario era un agente della DINA, che per assecondare la moglie scrittrice teneva feste con letterati.

Bolano sembra dirci che non è esattamente la cultura a impedire il peggio, a migliorare le persone. Né che sia solo la paura a paralizzare le persone. “Io non avevo paura.” dice il prete ignaro di tutto. “Io avrei potuto dire qualcosa, ma non avevo visto nulla, non avevo saputo nulla, finché era troppo tardi.”

Ecco, la prossima settimana in cui si celebra la Giornata della Memoria che riguarda la Shoah, si potrebbe domandarsi come sia possibile che non si sappia nulla, che non si voglia sapere nulla anche se abbiamo gli strumenti per conoscere, informarsi, sapere, anche se siamo colti, letterati, se abbiamo la capacità di pensare e scegliere, ma l’opportunismo, la vanità, la meschinità, calano un velo pesante tra noi e la realtà.

1452098_635743198919369853_francesco_costa_299x389   Francesco Costa  /  AC-Costa al Cinema

 

 


 

immLA CORRISPONDENZA

Regia, soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Tornatore; direttore della fotografia: Fabio Zamarion; scenografia: Maurizio Sabatini; costumi: Gemma Mascagni; montaggio: Massimo Quaglia; produzione: Isabella Cocuzza e Arturo Paglia; musica: Ennio Morricone; durata: 116’; nazionalità: Italia; anno: 2016.

Interpreti: Jeremy Irons (Ed), Olga Kurylenko (Amy), Shauna Macdonald (Victoria), Simon Anthony Johns (Jason), Anna Savva (Angela), Paolo Calabresi (Ottavio).

Giuseppe Tornatore ha vinto nel 1988 il premio Oscar per il miglior film straniero con Nuovo Cinema Paradiso, ma nella versione voluta, anzi imposta, dal produttore Franco Cristaldi che tagliava di netto tutta la seconda parte del racconto in cui il protagonista tornava disilluso sui luoghi dell’infanzia per crogiolarsi nei ricordi. In quell’ormai lontano episodio, che forse pochi ricordano, il regista avrebbe dovuto cogliere un monito di cui tener conto durante la stesura delle future sceneggiature, ma ci si deve ormai arrendere al fatto che non ce la fa proprio a risparmiare agli spettatori l’implacabile accavallarsi di innumerevoli prefinali che li costringe a boccheggiare in platea in attesa del vero finale che sembra non arrivare mai. Con l’eccezione del tetro La sconosciuta che, tagliato con la dovuta secchezza, non contiene un fotogramma di troppo, a ogni film del regista siciliano si potrebbe tagliar via almeno mezz’ora senza con ciò danneggiare il racconto che ne trarrebbe anzi un oggettivo miglioramento. Sussurrata a fior di labbra alla conclusione di ogni suo film, la verità è che vanno giudicate in modo diverso le sue due attività: il regista Tornatore ha un tocco inconfondibile, ma lo sceneggiatore Tornatore non sa scrivere. Ignora troppi fattori decisivi per la riuscita di un racconto: la progressione drammaturgica che deve scandirne le fasi, il valore della concisione, la distanziazione ironica che potrebbe alleggerire l’enfasi dei suoi dialoghi e, in quest’ultimo film che è sicuramente il suo peggiore, anche un ritmo che tenga sveglia la platea, ma a questo punto bisogna parlare di che cosa tratti La corrispondenza.

“Noi due siamo tutto un mistero altrimenti non staremmo insieme!”

Quest’uscita sublime (la prima di tante, e mette tristezza immaginare il regista che si spreme le meningi per cesellare queste scempiaggini) la sussurra nella scena iniziale la bellissima Amy all’attempato Ed mentre si stringe ardentemente a lui in una stanza d’albergo, e basta a far capire che il film parte male. Dopo aver baciato Amy, Ed esce di scena nel senso letterale del termine: non lo vedremo più se non sullo schermo di un computer perché, come certi astri ci appaiono vivi e brillanti anche dopo la loro morte, lui finge di essere vivo, ma è in realtà stato stroncato da un male incurabile. Valente astrofisico, tormenta l’infelice Amy (e gli incolpevoli spettatori) con massicci invii di lettere, cd, messaggi, in cui sputa sentenze sul cosmo e ripete all’amante quanto l’ami senza capire che, se l’amasse davvero, la lascerebbe in pace. Dopo quasi due ore di questa solfa, il finale è prevedibile: Ed non può certo resuscitare e la bella Amy dovrà pur piantarla di vagare affranta da un luogo all’altro, inseguita dal flebile commento musicale di Ennio Morricone che ha fornito prove ben più vivide del suo talento. C’è da aggiungere che Amy lavora come stuntgirl in film d’azione, uscendo puntualmente illesa da incendi o incidenti stradali quando in realtà spera di rompersi l’osso del collo per espiare la colpa di aver involontariamente causato la morte del padre, ma è una sottotrama di cui non si dice molto e di cui non c’importa niente, visto che del defunto non si vede neanche una foto.

La povera Olga Kurylenko regge da sola il peso del film, dal quale neanche un mostro di bravura come Meryl Streep uscirebbe indenne, e sarebbe iniquo infierire su di lei perché l’ex indossatrice ucraina rivela invece buone capacità di attrice nel riuscito Perfect Day del regista spagnolo Fernando Leon de Aranoa, che si può forse ancora recuperare in qualche sala. Film di ben altro livello, ambientato nei Balcani durante il conflitto serbo-croato, segue un gruppo di operatori umanitari, incaricati di tirar fuori un cadavere da un pozzo in una zona minata. Refrattari a ogni forma di stanzialità, i moderni picari spendono i giorni fra ripicche e sberleffi, schermaglie erotiche e sostanziale affinità d’intenti. In una girandola di emozioni genuine e di dialoghi scoppiettanti, la fascinosa Olga dà la replica (ma non su Skype) ad attori del peso di Benicio del Toro, Mélanie Thierry e Tim Robbins. Oscillante fra umorismo e commozione, il finale arriva al momento giusto e non quando si dispera di poter mai uscire dal cinema, e sui titoli di coda risuona, dono impagabile, la stupenda voce di Marlene Dietrich che lamenta gli orrori di ogni guerra! Chi può, corra a vederlo!

Francesco Costa

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Francesco Costa / AC-Costa al Cinema

 

 


 

immQUO VADO? regia: Gennaro Nunziante; sceneggiatura: Checco Zalone e Gennaro Nunziante; direttore della fotografia: Vittorio Omodei Zorini; scenografia: Valerio Girasole e Alessandro Vannucci; costumi: Francesca Casciello; montaggio: Pietro Morana; produzione: Pietro Valsecchi; durata: 83’; nazionalità: Italia; anno: 2016.

Interpreti: Checco Zalone (Checco), Eleonora Giovanardi (Valeria), Sonia Bergamasco (dottoressa Sironi), Maurizio Micheli (Peppino), Ludovica Modugno (Caterina), Lino Banfi (senatore Binetto).

In Italia, nel dopoguerra, il cinema era di sinistra. Dopo la levigata fatuità dei Telefoni Bianchi e le fanfaronate patriottiche del Ventennio, dalle rovine d’Italia sono emersi formidabili artisti in grado di raccontare, sia in chiave di commedia che di dramma, storie forti che si sarebbero incise nella memoria collettiva. Le classi sociali si riflettevano l’una nell’altra, per quanto oggi sembri incredibile, e raffinati intellettuali (Luchino Visconti, Alberto Moravia, Vittorio De Sica, Cesare Zavattini, Roberto Rossellini e altri) non si vergognavano a impiegare per i loro film stupende facce, scovate nei ceti popolari o nei concorsi di bellezza (Anna Magnani, Sophia Loren, Gina Lollobrigida, Marcello Mastroianni, Lucia Bosè, Renato Salvatori), e tanto fervore faceva fioccare sul cinema italiano consensi universali e premi Oscar a catinelle (4 a De Sica, 4 a Fellini, uno alla Magnani, due alla Loren e via di seguito): ci si proponeva al resto del mondo con la serenità di chi è fiero del proprio talento.

Tutto era apertura, spasso, elaborazione del dolore. Chi poteva prevedere che, con gli anni, la sinistra italiana sarebbe diventata una casta arcigna e snob che, allontanando gradatamente la gente dalle sale cinematografiche, avrebbe prodotto un cinema quasi pornografico, nel senso che riduce gli spettatori a guardoni delle vicissitudini personali, lutti inclusi, di registi acerbi e musoni? Dove sono finite la verve, la fantasia e il rigore di un cinema imitato in tutto il pianeta? Al suo posto crescono la cultura del disprezzo, un malriposto senso di superiorità, una strisciante misoginia, attrici monocordi e simili a una segretaria di Zurigo, fiumi di analisi e di elogi per film che, pur sostenuti da compiacenti conduttori televisivi, ammiccano a un ristretto giro di amici. E il pubblico? Quello vero, s’intende, che non puoi portare al cinema se non hai qualcosa da offrirgli? Sparito dalle sale o attirato dai filmoni hollywoodiani come le falene dai fari quando non preferisce al cinema una pizza e una birra in lieta compagnia. E considerato, per giunta, cretino e fascista perché in questo bizzarro paese accade che sia ritenuta di sinistra una borghesia avvinta ai propri privilegi e di destra chi non sa come arrivare alla fine del mese.

Alla luce di tali degenerazioni è ovvio che un film capace di attirare al botteghino milioni di persone sia tacciato di qualunquismo, parolina magica usata spesso a sproposito, e figuratevi il putiferio che si scatena all’irrompere sulla scena di un tal Checco Zalone il cui ultimo film, Quo Vado?, incassa in soli sette giorni una cifra che si avvicina rapidamente ai 50 milioni di euro. La crociata prende il via, molti critici starnazzano indignati, c’è chi istiga gli spettatori a uscire dal cinema mezz’ora prima della fine (ma non è più pratico restare a casa?) per farsi rimborsare i soldi del biglietto. In campo editoriale si ricorda qualcosa di simile quando il folgorante successo del romanzo Va’ dove ti porta il cuore espose la sua autrice, Susanna Tamaro, a un terremoto di critiche e insulti. La verità è che l’invidia è una pianta che cresce in troppi giardini.

Tornando a Quo Vado? c’è da dire che, con incassi di questa portata, il rischio è quello di parlare più dei suoi trionfi che del film in sé. La storia è in realtà un vero profluvio di invenzioni che mette sotto accusa i mali italici (corruzione, accidia, maschilismo, narcisismo), incarnati da un giovanotto di nome Checco che fin da bambino concupiva il posto fisso e che ora rischia di finire a spasso a causa della crisi economica e dell’accanimento di una viperina funzionaria che le studia tutte per spingerlo a licenziarsi: lui tiene duro e, pur di non restare disoccupato, si sposta di continuo da un continente all’altro, accettando le sedi più invivibili, e intanto cresce, matura, incontra l’amore fino a una conclusione non imprevedibile, ma di certo godibile che, con una sapiente escalation emotiva riesce a far piangere non solo il personaggio più coriaceo del film, ma anche lo spettatore più sensibile. Forse non è il caso di scomodare Totò o Alberto Sordi (peraltro vituperato ai suoi tempi dal nuovo che avanzava), ma Zalone è in grado di offrire una radiografia piuttosto originale dei tempi in cui viviamo e, contando su un’irresistibile carica di simpatia, potrebbe dettar legge sul nostro mercato ancora per molti anni, oltre a saper scrivere una sceneggiatura che non conosce momenti di stanchezza e offre all’attrice Sonia Bergamasco (dal raffinato curriculum che, fra cinema e teatro, allinea i nomi di Carmelo Bene e di Bernardo Bertolucci e il ruolo della terrorista nel celebrato La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana) un delizioso ruolo di cattiva che fa il verso alla leggendaria Crudelia Demon!

Francesco Costa

mariasHo iniziato l’anno con la lettura dell’ultimo romanzo di Javier Marias, uno degli scrittori che preferisco. E’ una lettura “slow”, lenta appunto, perché i libri di questo autore spagnolo non sono di genere, vanno gustati lentamente, a volte tornando su frasi o addirittura pagine, per la profondità delle riflessioni, per la descrizione acuta dei personaggi e delle relazioni che questi intessono, per la complessità di queste relazioni apparentemente semplici, innocue, “normali” e mai tali perché si cela sempre un mistero.

Come appunto accade in questo “Così ha inizio il male” (Einaudi, 2014) dove l’io narrante è un giovane assistente di un produttore e regista cinematografico, Muriel, un uomo affascinante, dagli occhi azzurri e la benda su un occhio (come Alain Delon-Tancredi in “Il Gattopardo” di Visconti), sposato con una donna che costantemente demoralizza, svilisce, disprezza, in un gioco al massacro che la donna sembra subire come una sorta di espiazione. Ma cos’è successo tra quei due?

Ci vuole pazienza, e soprattutto voglia di scandagliare l’animo delle persone, la vita, e anche una società diversa, non soltanto perché spagnola ma perché ambientata a trent’anni fa, negli anni Ottanta del dopo franchismo, ammantato di ambiguità politiche e sociali, segreti, ricatti. Ci vuole piacere della lettura, che non si consuma in poco tempo, in fretta, ma si prova in un tempo disteso, per pochi capitoli alla volta, magari la sera prima di addormentarsi, come si faceva prima che la televisione e i suoi diecimila canali di sciocchezzaio riempissero le nostre case giorno e notte. Ma nelle sere che iniziano alle cinque del pomeriggio, mentre fuori piove e fa un freddo autunnale, vale la pena immergersi in un libro come questo.

 

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Francesco Costa / AC-Costa al Cinema

 

 


 

pontespieIL PONTE DELLE SPIE

Titolo originale: Bridge of Spies; regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Matt Charman, Ethan e Joel Coen; direttore della fotografia: Janus Kaminski; scenografia: Adam Stockhausen; costumi: Kasia Walicka-Maimone; montaggio: Michael Kahn; produzione: Kristie Macosko Krieger, Marc Platt e Steven Spielberg; durata: 141’; nazionalità: Usa.

Interpreti: Tom Hanks (James Donovan), Mark Rylance (Rudolf Abel), Alan Alda (Thomas Watters jr.), Amy Ryan (Mary Donovan), Eve Hewson (Carol Donovan).

Alfred Hitchcock non ci credeva affatto, Steven Spielberg ci crede ciecamente. Ci si riferisce all’innocenza dell’everyman, all’integrità dell’uomo qualunque, all’onestà dell’americano medio. I personaggi del mago del brivido finivano in situazioni pericolose e più grandi di loro sempre a causa di un’ombra che li contornava, di un dubbio o di una debolezza da cui erano afflitti e che, in fondo, li umanizzava. Si pensi a due eroi hitchcockiani impersonati da James Stewart: quello di La donna che visse due volte soffre di vertigini ed è questo suo punto debole che costerà la vita a ben due donne, e quello di La finestra sul cortile non scoprirebbe un omicidio, trovandosi impegnato nel finale in un furioso corpo a corpo con l’assassino, se non coltivasse segretamente l’inclinazione al voyeurismo.

James Donovan, l’americano medio visto da Steven Spielberg in Il ponte delle spie e incarnato da Tom Hanks, che di James Stewart può essere a buon diritto ritenuto l’erede, è invece un solido blocco di virtù. Non ha debolezze né vizi: tutt’al più ha dei vezzi. Intrattiene innocue schermaglie con una moglie felicemente aliena dalla più remota idea di sensualità. Ha una famiglia talmente perfetta da sembrare inumana, tre figli che ignorano i più basilari conflitti individuati da Freud, una casa che pare uscita da un disegno di Norman Rockwell, un giardino con un prato di un verde che esiste soltanto nei cartoni animati. Tutto è artificiosamente perfetto. Questo mondo che rasenta la caricatura è il solo, secondo Spielberg, in cui si può essere felici. Il Male può germinare fuori di esso, non dentro. Ed ecco che si offre all’everyman Donovan l’occasione di lasciare, novello Ulisse, la sua Itaca per esplorare l’universo esterno alle piacevolezze del suo nido e svolgervi una missione delicata. Nonostante sia un semplice assicuratore, deve recarsi a Berlino per negoziare il rilascio di un giovane pilota americano abbattuto dai russi (il fatto è realmente accaduto, in piena Guerra Fredda, nel maggio del 1960), facendo cambiare tono al film che abbandona le leziosaggini iniziali per diventare una solida spy story. Dovendo scambiare il prigioniero americano con una spia russa già arrestata negli Stati Uniti, Donovan si addentra in una Berlino ancora lacerata dai tragici strascichi della Seconda Guerra Mondiale e vede i russi alzare il muro che per decenni dividerà in due la città. Assiste all’arresto di uno studente americano e si confronta con le bassezze e con la stupidità di tutte le parti in causa: dagli agenti della Cia che alloggiano all’hotel Hilton, facendo dormire lui in un tugurio, ai governanti di Berlino Est che sbavano per essere riconosciuti dai governi di tutto il mondo, dai russi che si fanno sempre più minacciosi a svariati faccendieri impegnati in sordidi traffici di natura imprecisata. Inutile dire che, onesto e cocciuto, Donovan terrà duro e riuscirà a compiere la sua missione, scambiando il pilota (ma anche lo studente incarcerato sotto i suoi occhi) con la spia russa che è un impassibile ometto di mezza età, sospeso fra amarezza e fatalismo, e risulta alla fine il personaggio più simpatico del film.

Ritenuto rassicurante dal pubblico che lo ha premiato in patria e altrove con cospicui incassi, Il ponte delle spie vanta una ricostruzione ambientale di formidabile accuratezza: costumi, scenografie, trucco non si limitano a farne un film ambientato negli anni ’60, ma lo fanno addirittura sembrare un film girato in quel periodo di cui preserva perfino le illusioni con la rappresentazione estatica di un Eden perduto e forse mai esistito, rappresentato da una tipica famiglia della middle class americana. Ci piace però pensare che la sceneggiatura (cui mettono mano anche i fratelli Coen) sfiori un tono beffardo quando, lasciandosi alle spalle le scansioni più avvincenti del racconto, il nostro Ulisse torna a Itaca per inscenare con la sua Penelope una fiacca gag su un vasetto di marmellata mentre il resto del mondo va a fuoco e Spielberg finge di ignorare che le scelleratezze di serie televisive come Desperate Housewives ci hanno nel frattempo rivelato che anche in quella mela si nasconde un verme.

Francesco Costa

carol“Quando non può esserci niente di peggio, finisci le sigarette”, potrebbe diventare una delle frasi famose del cinema. A pronunciarla è, in Carol di Todd Haynes, una bellissima, statuaria, luminosa Cate Blanchett, l’attrice di oggi che ricorda le dive di un tempo, e sa ricreare anche quell’allure, la sensazione che da loro promani un fascino misterioso e soprannaturale. Le attrici che facevano da sole tutto il film, e sembrava che ai registi bastasse girargli intorno, come Rita Hayworth mentre si sfila il guanto in “Gilda”.

Cate somiglia a quelle donne, a Katarine Hepburn (non a caso interpretata in The Aviator), alla Hayworth, persino alla Garbo nelle inquadrature in primo piano dal basso in alto, con gli occhi che sfavillano e i capelli dorati. D’altronde, quest’attrice non sbaglia un film, un’interpretazione, e sa convincerci persino acconciata da Bob Dylan, il miglior Dylan mai rappresentato, nel film “Io non sono qui” (2007, sceneggiato proprio dallo stesso Todd Haynes).

Così, vale la pena vedere “Carol” anche solo per la prova di quest’attrice cui sta alla pari una magnifica, pensierosa, compresa Rooney Mara, che ricorda Audrey Hepburn. Ma a differenza del celebre Eva contro Eva di Mankievicz (1950), qui due donne non sono rivali, né si accapigliano per un lavoro o per un uomo. Si innamorano, si amano, affrontano a testa alta giudizi e vigliaccherie.