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mrmercedesEbbene sì: incollata alle pagine di Mr Mercedes di Stephen King, che come al solito ti agguanta e non ti molla fino alla fine. Magari non sarà il maestro dell’horror di un tempo, come lamentano molti critici soprattutto italiani, però io mi dico due cose: la prima è che uno scrittore ha il diritto e magari anche il dovere di sperimentare al di fuori del suo campo che, nel caso di King, ha inventato. Se poi decide di costruire una detective story sul filone della vecchia “scuola” Hard Boiled, e cioè i romanzi di Chandler o Hadley Chase, a me va benissimo. Anche perché quel genere con King si rinnova, per esempio s’inseriscono le nuove tecnologie e l’uso assassino che se ne può fare. La seconda cosa che mi dico è che se un romanzo è buono, riesce a catturati, ti tiene desto e interessato, io non farei tanto il paragone con il resto della produzione di un autore peraltro prolificissimo.

In più, in questo romanzo d’investigazione su un assassino che massacra gente in coda per cercare un lavoro travolgendola con una Mercedes, c’è quella riflessione interessante sui linguaggi contemporanei offerta in modo semplice ed efficace: l'”Ebonics” parlato da Jerome, il ragazzo afro-americano bravissimo a usare la rete, i tic linguistici del killer, il linguaggio poliziesco, le espressioni di oggi, legate all’uso dei cellulari e della rete, e la capacità di rendere, proprio attraverso il linguaggio, molto vivi e credibili i personaggi. Qualcosa che molti autori, pure famosi, non sanno fare, anche se promettono sfumature di vario colore.

sheepNon sono carine? Vederle sempre intorno e così da vicino è un piacere.

Talmente grande che mi sono messa a leggere un giallo pubblicato due anni fa in Italia, Glennkill (Bompiani 2011), di Leonie Swann, pseudonimo di una giovane autrice tedesca (nata nel 1980) che, un po’ come nel celebre La fattoria degli animali di Orwell, sceglie come protagonista della storia d’investigazione un gregge di pecore, dove si distingue l’intelligentissima Miss Maple (altro omaggio, ma stavolta ad Agatha Christie).

glennkillIl caso inizia con il ritrovamento del pastore, assassinato con una vanga, dalle sue pecore sconcertate. A differenza del gregge umano che non si preoccupa di chi abbia ucciso l’uomo, ma casomai cerca di portargli via i suoi possedimenti o i segreti che aveva, le pecore si pongono molte domande, proprio quelle che avviano sempre indagini e permettono di scoprire i motivi e i responsabili.

Più divertente che da brivido, il romanzo svela in modo simpatico i meccanismi del racconto d’investigazione. Penso sia adatto ai lettori giovani, che anzi potranno apprezzare il gioco dei generi: un giallo raccontato con humour, leggerezza, e il punto di vista di pecore che capiscono più con l’odorato che con la vista. Questioni di lana, ma non caprina.

Ogni tanto si inciampa in un libro-palla. Eccolo qua: Betibù di Claudia Pinero. La cosa migliore del volume è la bella copertina, giallo girasole con la figurina di Betty Boop: ottima idea dell’editore per lanciare la novità di un’autrice di tutto rispetto. Soltanto che non tutti possono scrivere gialli e noir, e anzi sarebbe meglio che alcuni autori si astenessero e magari proseguissero con storie diverse, anche per dare a noi lettori qualche alternativa di genere.

Non so se la lentezza, l’artificiosità del romanzo siano ampliate dalla traduzione, come mi hanno detto (purtroppo non so leggere lo spagnolo), fatto sta che qui non si decolla. L’ho passato a mia madre, grande lettrice, ma dopo due giorni ho visto che il volume giallo stava sotto alla pila di tre libri sul comodino: brutto segno.

Che devo dirvi? Jo Nesbo non mi ha convinto.

Ho scaricato Lo spettro, nuovo thriller che ha come protagonista il detective Harry Hole, sgangheratissimo come erano i personaggi di Hadley Chase, ma confesso di aver abbandonato la lettura. Sarà anche ambientato a Oslo, ma è una grandissima americanata. Non ce l’ho fatta proprio a leggerlo. Mi pare di aver già dato con Il leopardo, che pure mi aveva molto incuriosita.

E dire che una recensione parlava di questo romanzo come una novità rispetto agli altri, soprattutto per la scrittura. A me pare né più né meno che la solita scrittura di genere, e molto hard boiled per giunta. Mi sa che lo spettro, alla fine, è proprio lo stile che resta inchiodato al crime.

Negli ultimi tempi sono prolificati giallisti di sapore locale. Sulla scia della Sicilia di Camilleri e della Bari di Carofiglio, Vichi ha raccontato Firenze con il commissario Bordelli, Malvaldi ha messo in scena vecchietti pisani, Bruno Morchio ha inventato il detective in vespa per strade di Genova, e così via.

Napoli ispira spesso il noir (e si capisce per la presenza della camorra), ma l’originalità di La paura della lince (Rogiosi edizioni, 2012) sta soprattutto nel fatto che lo scrittore è una scrittrice napoletana, qui alla sua seconda prova nel genere, dopo un certo numero di romanzi e saggi. Si tratta di Antonella Cilento, che usa la strategia della suspense per raccontarci Napoli, i luoghi archeologici frequentati soprattutto da turisti stranieri, la sua storia stratificata, prendendo come protagonista del plot che si incentra su un capolavoro misterioso una quarantenne precaria, appena licenziata da un Museo dove, come ormai succede dappertutto, si erano progettate grandi cose e infine si langue nella penuria di risorse. Una ragazza di mezz’età come molte, single che si arrabatta, con un papà vedovo, e d’un tratto con una nipote, figlia di una sorella ex tossica, che a dieci anni le viene affidata dall’assistenza sociale. Pochissimo sex and the city, benché appaia un poliziotto corteggiatore, invece molto affanno tra una supplenza capitata all’improvviso, una famiglia complicata, il furto subito in casa, un omicidio inspiegabile e un domestico cingalese coinvolto…

Al di là della brillantezza della storia, narrata sempre in un registro ironico, più da commedia che da giallo, Cilento ci dà però qualche graffiata della sua capacità di impressionarci attraverso figure surreali, che ricordano Maria Ortese, come una pazza insegnante, sorpresa a miagolare e mangiare scatolette nella ciotola del gatto.

E bravo Malvaldi! Il suo libro “La carta più alta”(Sellerio) è molto accattivante. Un giallo classico, di quelli che attivano le capacità intellettuali, più che l’azione o l’affidamento a tecnologie complesse, e che tengono fuori dalla scena il crimine vero e proprio.

Però il fascino della storia non sta in quel piccolo mistero da sciogliere (non si tratta di una trama complessa come quelle di Camilleri) ma nell’ambientazione di paese della provincia pisana, e negli indovinatissimi, esilaranti, personaggi dei quattro vecchietti ispirati di certo dagli “Amici miei” di Monicelli, che Malvaldi cita nella storia. Quattro giocatori di carte accaniti, incollati alle sedie del BarLume (che sembra inventato da Benni), per la disperazione del barista, anzi barrista Massimo. Il quale è l’ultimo di una lunga serie di investigatori dilettanti ma efficaci, tipici del racconto d’investigazione moderno, dove spesso eccellono giornalisti o avvocati, ma si esercitano anche professori, bibliotecari, studentesse, bambini, animali.

Certo, bisogna dire che con i gialli di Malvaldi l’editore Sellerio conferma il suo ottimo fiuto nello scoprire bravi scrittori italiani di genere e di essere in sintonia con i gusti di un pubblico che apprezza gli autori che osano il localismo, addirittura il dialetto.