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Ecco a voi il capolavoro contemporaneo: Everything Everywhere All at Once dei Daniels, un rutilante film campione di incassi negli USA e vincitore di ben 7 dico 7 Oscar, a quanto pare in grado di mettere d’accordo pubblico e critica cinefila, insomma una bomba!

E tale mi è sembrata, una bomba violenta e insensata, che dopo la prima mezz’ora di originalità frana nell’estenuante montaggio del di tutto di più (da cui il titolo), e avete voglia a dirmi che è una parodia della Marvel, che la supereroina è una lavandaia e il nemico l’agente delle tasse (motivo di empatia da parte del pubblico mondiale), che si cita questo e quest’altro (e Tarantino e Kubrik e fantascienza de noiartri) a me il film è sembrato un videogioco noioso, perché almeno nel videogioco si gioca, in più è un ipertesto caricato di troppo significato: la comunità asiatica, il cinema sudestasiatico, le relazioni Lgqbt+, la diversità, un po’ di infarinatura di quantistica e, alla fine, il melenso e abusato rapporto madre-figlia, che dall’epoca di Ingmar Bergman non si schioda più dal bisogno di un’accoglienza e comprensione rispetto al giudizio, la freddezza e il rifiuto materno dato dall’adesione a modelli superati.

Se ho accolto con gioia la notizia del premio a una brava attrice dalla lunga carriera come Michelle Yeoh, e soprattutto le sue belle parole, mi sento di concludere come mia madre quando, di fronte a certi nuovi romanzi splatter, diceva: “Non mi intendo di letteratura di oggi. I fratelli Karamazov, quelli sì che erano una storia che si capiva…” Anch’io non mi intendo di cinema nerd e intellettuale di oggi.

Ricomincio a scrivere sul blog dopo che qualche persona mi ha chiesto perché non recensisco più. Me ne sono stupita, convinta che nessuno si prendesse più la briga di leggere i miei consigli di lettura e le recensioni di libri e film. Ma per quei tre-quattro che vogliono confrontarsi su letture condivise, rieccomi, molto volentieri.

E ricomincio con un bel romanzo, appena uscito con Mondadori: Terremoto di Chiara Barzini. L’ho letto con molto interesse, appassionandomi alla storia di stampo autobiografico ambientata nella Los Angeles di vent’anni fa, l’ho letto portandomi sempre il libro con me, come in tanti facevamo una volta, prima di essere distratti da tablet e soprattutto smartphone con social che ti chiedono a cosa stai pensando e ti avvertono che migliaia di persone a cui piaci non hanno più tue notizie da un giorno!

Dunque, in epoca pre-social si colloca un romanzo di formazione femminile, in cui il terremoto è prima di tutto esistenziale con il distacco forzato di una adolescente dal suo ambiente e dai suoi amici, la Roma tutto sommato giovanilmente vivace degli anni Novanta, ma da un punto di vista lavorativo già disastrosa e annoiata dai suoi tanti artisti e aspiranti tali. La famiglia di Eugenia è composta da un padre aspirante regista di horror e una madre che lo asseconda e lo segue devota, ex ragazzi ribelli degli anni ’70 e molto idealisti, e in ritardo sul viaggio mitico negli States alla ricerca di un cinema indipendente perduto. Eugenia e suo fratello più piccolo, balzati in una tetra Los Angeles post-scontri razziali, faticano a integrarsi tra i coetanei, nelle scuole dove sono considerati né più né meno che come rifugiati armeni. Scompaiono tutti gli stereotipi (nostri) che pensano gli italiani molto “cool” e famosi per la moda o le auto di lusso.

Alienata, diversa dalle altre ragazze, Eugenia cerca di crearsi una corazza, non avendo suo padre Ettore, narcisista ed egoista, avuto la capacità e la responsabilità di proteggere la propria famiglia in un paese apparentemente accogliente, in realtà spietato e violento, prima di tutto nei confronti dei ragazzini, addirittura dei propri figli che si trovano alle dipendenze di padri-padroni, o legati a logiche di clan, tutti comunque incasellati in una società organizzata come un alveare dalle molte cellette prestabilite.

Un romanzo lucido, che, come nel caso di Teresa Ciabatti, mette al centro una ragazza nella relazione con un padre, in questo caso fragile ed egocentrico, e con una madre-bambina svaporata, un romanzo intenso e pieno di amore per l’innocenza della giovinezza, che sa trasmettere il bisogno disperato di relazioni in una Valley che più che di stelle appare davvero di lacrime.

Romanzo ambizioso, Cortile Nostalgia di Giuseppina Torregrossa (Mondadori 2017, una copertina splendida), che racconta un trentennio di storia italiana (dai ’60 ai ’90 dello scorso secolo) attraverso una coppia siciliana, carabiniere lui, ragazza semplice, sposa sedicenne lei.

Non è affatto una storia romantica, la loro, anzi: la giovinezza li rende impacciati, spaventati ed estranei fin da subito, dentro un matrimonio che va avanti giusto perché il carabiniere Mario è spedito a Roma e torna raramente in Sicilia, dalla giovane moglie Melina e dalla bambina Maria concepita subito. O forse sarebbe andata meglio se i due ragazzi si fossero conosciuti meglio, apprezzati pian piano, e avessero preso abitudine uno all’altro? Chissà: come al solito non c’è una seconda recita per la nostra unica rappresentazione su questo mondo.

Naturalmente, la famigliola non è unica protagonista di un romanzo che attraversa trent’anni di storia italiana: c’è una zia simpatica e vitale, c’è la vicina dal grande cuore mamma Africa, c’è il mafioso, e soprattutto c’è, come dice infine l’autrice, un’intera città, Palermo, con il suo mercato, la gente che viene da ogni parte del mondo, la capacità di accogliere e di far convivere le persone.

Un libro che si legge volentieri, scritto con passione, che per me ha il limite della focalizzazione multipla dei personaggi in una narrazione tutto sommato circoscritta, che sembra sfiorare temi più che impegnarvisi. Maria, che appare all’inizio la protagonista, descritta minuziosamente e indagata nei pensieri, a tratti scompare nelle pieghe di altre vicende, ricordandoci che c’è un narratore esterno a tenere le fila, e dunque impedendoci di abbandonarci completamente alla storia, facendoci commuovere o stupire.

The Wonder (Little, Brown and Co., New York, 2016), ovvero La meraviglia o meglio ancora “Il prodigio” come titola l’edizione italiana, è l’ultimo appassionante romanzo di Emma Donoghue, l’autrice di “The Room”, storia impressionante e basata su una vicenda reale, diventata di recente un film.

Probabilmente anche The Wonder avrà una versione cinematografica, perché alla fine le storie della Donoghue si prestano benissimo alla traduzione in film: pochissimi personaggi, che si muovono in un piccolo ambiente. Anche qui, siamo spesso dentro una stanza, quella di Anna, la bambina in odor di “miracolo”che sembra possa vivere senza mangiare, dove arriva la scettica infermiera Elizabeth Wright, detta Lib: non un’infermiera qualsiasi, ma una delle donne formate da Florence Nightingale per accudire i soldati britannici in Crimea. La differenza è sostanziale, perché siamo nel 1920 e le donne non possono ancora studiare, né avere voce in capitolo neppure nelle cure di una bambina, e il comportamento, la volontà, la caparbietà di Lib sono eccezionali.

Ma ancor più eccezionali sono la sua astuzia e la capacità di sfruttare il pregiudizio sulle donne, sulla loro emotività e l’incapacità di gestire situazioni delicate, per riuscire nel suo piano che non posso rivelare, per non rovinare la sorpresa di un bel romanzo a sfondo storico, ben ambientato, ben costruito, che ci permette di riflettere sulla superstizione e il fanatismo, estremismi di tutte le religioni quando si mescolano con l’ignoranza e l’insensibilità.

Tris di donne scrittrici, se trovo una quarta di questo livello faccio un mio personalissimo poker letterario. Perché il terzo libro di seguito che ho letto è l’ultimo romanzo di Teresa Ciabatti, La più amata (Mondadori), uscito in febbraio, candidato subito al Premio Strega e veramente un gran romanzo.

Siamo ancora negli anni ’70, stavolta d’infanzia (d’altra parte queste scrittrici sono quarantenni e oltre) e in Toscana, in una piccola località che comunque è sempre andata di moda: Orbetello ovvero l’Argentario, dove Teresa nasce figlia di un primario che è considerato una sorta di papa, quasi santo, che comanda non soltanto nel suo ospedale, e forse è più che massone, magari Gran Maestro, di sicuro è ricchissimo già di famiglia e moltiplica gli averi, permettendosi una villa faraonica che nemmeno gli Agnelli possiedono. Una vita che nasconde tante ombre, quando la figlia, diventata adulta, non più ricca perché il patrimonio si è dissolto incomprensibilmente, si mette a indagare e come dice “racconta e inventa” perché è quasi impossibile sapere davvero chi era suo padre, e resta il dubbio che questa scrittrice incantatrice abbia esagerato, fantasticato, nel tentativo di darsi una ragione della perdita di un’infanzia dorata, di una vita che sarebbe potuta essere dorata.

Teresa Ciabatti scrive spietata, lucida, drammatica, ironica, disperata e patetica, si mette a nudo attraverso una storia tremenda, dove non c’è perdono perché non c’è comprensione, c’è un indagare negli anfratti familiari, un domandarsi dove e come è iniziata la fine, forse fin dal principio come sempre nella vita, e perché si è quel che si è: incompleti, strambi, insoddisfatti, un po’ falliti. Soprattutto quando si nasce ricchi, protetti, amatissimi, e a un certo punto si cade dall’eden sulla nuda realtà, è un po’ difficile darsi pace.

lapenaNon ci sono personaggi positivi, in questo thriller dell’autrice canadese Shari Lapena, una delle numerose esordienti di talento nordamericane che subito accedono al massimo successo nel mondo letterario, grazie alla potenza di fuoco di un mercato che piazza i libri in tutto il mondo (questo è il Canada, ma è simile agli USA)

La ex avvocato e ex insegnante ci racconta in La coppia della porta accanto (Mondadori) la storia del rapimento di una neonata mentre i genitori sono a cena dai vicini di casa. In più, si capisce fin dall’inizio che le cose non quadrano: la mamma della rapita soffre di depressione e ha un passato ancora più oscuro; il papà ha grossi guai economici con la sua azienda. Ci si mettono anche la vicina fatalona, cinica, antipatica, il suocero arrogante e spietato, la suocera superficiale, insomma, un gruppo di personaggi che fanno invidia a “Carnage” (la piece magnifica di Yasmina Reza, in italiano Il dio del massacro, diventato film di Polanski nel 2011 ).

La storia è scarnificata da ogni divagazione o descrizione, da altri personaggi o situazioni, procede per narrazione asciutta e attraverso il dialogo oppure domande introspettive che si pongono costantemente i personaggi tormentati dai sensi di colpa. Si capisce che è già pronta per un film, un po’ tipo “Gone Girl” dove ugualmente non c’era uno che si salvasse.

Ho come il sospetto che queste autrici (spesso donne) escano da una sorta di factory, quella di corsi di scrittura dove si realizzano storie ben congegnate grazie all’uso brillante di archetipi narrativi (per quanto riguarda Young adult gli schemi di Propp) e di quelle domande che l’insegnante spinge a porsi e che poi finiscono nella scrittura. Non è il primo romanzo che leggo, dove trovo la raffica di domande che i personaggi pongono a se stessi e dunque al lettore, partecipe della loro angoscia anche perché, in questo caso, si trova nel ruolo del genitore imperfetto e attanagliato dalla paura di sbagliare e non essere all’altezza di un ruolo non più naturale ma sociale.

godhelpVolete un buon libro moderno, una buona letteratura che ci dica qualcosa di oggi, di noi? Questo è il libro: God help the Child, non so quando sarà pubblicato in italiano e ringrazio la tenacia di continuare a studiare l’inglese anche soltanto per poter leggere romanzi come questi. Lo ha scritto una signora che sa il fatto suo, una donna ultraottantenne che sa dirci più e meglio di qualsiasi esordiente che magari, per non sbagliare, per guadagnare, per essere famosa presto e subito, si butta su generi più lucrosi,quelli che si dicono contemporanei e parlano di lupi mannari, roba d’altri tempi.

imgres-2Lei no. Lei, Toni Morrison, va dritta al punto, non teme di affrontare non uno ma diversi temi scabrosi: la molestia pedofila, la trascuratezza e l’incapacità dei genitori, il pregiudizio razziale, l’odio razziale, la paura razziale sul colore della pelle. E lo fa da maestra (premio Nobel 1993): il colore nerissimo terrorizza anche chi è afroamericano, ma che magari ha sfumature meno intense, non ha pelle che sembra una notte buia, e di fronte alla stessa figlia prova repulsione, mai tenerezza, né amore.

Certo, la bambina cresce, anzi, nella società mutata della multiculturalità la sua nerezza diventa affascinante, soprattutto se evidenziata da consigli di un bravo stilista, e può addirittura farle scalare i gradini di un’azienda di prodotti di bellezza, perché oggi “black is the new black” e vende.

Ma un romanzo contemporaneo non è una semplice fiaba sul genere della mia “Black Snowwhite”. Così a questa storia s’intrecciano quelle degli altri personaggi, tutti collegati dalla pedofilia che sfiora o distrugge i bambini, e gli adulti se sono genitori o insegnanti, e non è detto che siano indenni dal pericolo i figli di famiglie amorose e attente, che parlano con i figli e li incoraggiano e forse non li mettono sufficientemente in guardia dal male, dall’orrore.

Non mi vergogno a dire che mi sono molto commossa a leggere questo romanzo superbo, moderno, incalzante, che sa mostrare i diversi e complementari punti di vista, che ci sorprende e ci fa riflettere profondamente. Che dopo una lunga e tenera descrizione di due giovani che stanno per avere un bambino e sognano per lui tutto il bene possibile, senza errori, senza distrazioni, chiude con un secco: “Così credevano”, perché l’educazione è anche un atto di fiducia, di speranza e un po’ di presunzione.

misachefuoriCome si chiama qualcuno che ha perso un figlio? Non c’è una parola non solo in italiano, ma neppure in altre lingua. Bisogna risalire alla Bibbia per trovare, in ebraico la parola “av shakul” al maschile e “em shakula” al femminile, da “shakul” perdere un figlio. Dice bene Concita De Gregorio, in questo piccolo, commuovente, tremendo libro “Mi sa che fuori è proimavera” (Feltrinelli, appena uscito): la morte di un figlio è “la misura aurea del dolore”, perché inconcepibile, innaturale, il più orrendo dei dolori, che immaginiamo insuperabile, anzi, non lo immaginiamo proprio, di solito lo rimuoviamo.

Così, è davvero emblematica la storia di Irina Lucidi, “em shakula” di due bellissime gemelle di sei anni, sottratte dal marito una mattina e scomparse, e non è stato nemmeno possibile sapere se e come sono morte, perché il padre si è suicidato: un fatto terribile di cronaca di cinque anni fa. Lui era svizzero tedesco, e forse questo fatto, che fosse svizzero e non di altra minacciosa origine, di qualche paese in odor di terrorismo, ha rallentato se non addirittura scoraggiato le indagini. In più Irina invece è italiana e in Svizzera un’italiana non è proprio come gli altri.

Dunque: non si tratta solo di ricostruire uno di quei fattacci di cronaca nera, si tratta di andare anche a scandagliare pregiudizi, negligenze, stereotipi, di vedere come infine una persona può continuare a vivere, perché “di dolore non si muore”, e fondare coraggiosamente un’Associazione per la ricerca dei bambini svizzeri scomparsi (www.missingchildren.ch), andare avanti, credere nell’amore e nella vita. Un libro difficile da leggere, ma da leggere d’un fiato, per riflettere, per interrogarsi sulle relazioni umane.

mammanaNon ho potuto fare a meno di associare il titolo “Un affare di donne” al libro bello, appassionante e persino divertente di Antonella Ossorio, La mammana (Einaudi 2014). Certo, nel film di Claude Chabrol si parlava di un’ostetrica che si occupava di far abortire le donne, mentre in questo romanzo  si racconta di Lucina, ragazza bellissima e solitaria, che fa nascere i bambini.

Siamo a metà dell’Ottocento, nell’Italia risorgimentale che rimane però sullo sfondo con i tumulti, la passione rivoluzionaria e gli stravolgimenti politici e sociali che vennero. Finalmente un’autrice che se ne guarda bene da scrivere, e anche pensare “nulla fu più come prima”, perché tutto cambia, figurarsi per una ragazza che ha un segreto inconfessabile, che adotta una bambina albina, chiamandola Stella proprio perché bianca e luminosa come gli astri e che va a vivere a Napoli proprio quando stanno per scoppiare i moti del 1848. Ma della politica e delle rivolte non interessa a Lucina, del resto le donne erano poco o nulla toccate da “affari da uomini”, mentre ben più importanti per lei sono le relazioni tra le persone, e il conformismo che le permea, la cosiddetta normalità che sembra non prevedere scelte alternative o nuclei familiari diversi. Insomma, Lucina sembra proprio precorrere i tempi, fingendosi vedova, adottando una figlia reietta dalla famiglia d’origine e scegliendosi un compagno che la ama per quel che è.

Ed è “quel che è”(e che qui non diremo per non togliere il piacere di leggere) che rende tanto attraente il romanzo, raccontato con leggerezza, ironia, senza indugiare sulla crudeltà o sulla tragedia, invece insistendo sulla bellezza e l’insostituibilità delle relazioni, soprattutto l’amicizia e la solidarietà tra le donne che, anche prima di averla coniata, sapevano che esisteva, tra di loro, un legame fortissimo: la sorellanza.

voinonlaconosceteVoi non la conoscete è il titolo di un racconto di Cristina Comencini, pubblicato qualche mese fa (Feltrinelli). Il titolo è tratto da un verso di una vecchia canzone strampalata (Voi non la conoscete ha gli occhi belli… Chi? Eulalia Torricelli da Forlì), ma che sembra ricordare che nessuno è mai perfettamente conoscibile, e ancora meno lo sono le donne, per lo meno donne che all’apparenza sembrano persone semplici, carine, adattabili, docili, poi di colpo rivelano un’inaspettata e incomprensibile violenza.

E’ il caso di Nadia, io narrante di questa storia di rabbia e dolore, che colpisce il lettore con una strategia narrativa classica da thriller: la protagonista è in prigione e il racconto aiuta a dipanare la sua storia, ma non ci spiegherà del tutto la motivazione del percorso di una moglie e madre in una ladra e complice di assassini, in una donna che diventa dura, rabbiosa, maschile, staccandosi sempre più dalla maschera di brava ragazza al punto di parlare di se stessa come di qualcun altro.

E’ il racconto di una terapia, ma è anche e soprattutto un’ottima piece teatrale, per l’asciuttezza del testo e la preponderanza del dialogo. Una piece che Comencini sarebbe bravissima a mettere in scena a teatro. Ce l’auguriamo, soprattutto in un periodo come questo in cui si parla delle orrende condizioni dei carcerati, a dir la verità senza particolari progetti, e nemmeno soluzioni, salvo inviti alla pietà in un paese che di pietà ne ha sempre meno.