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Romanzo

Mi domando se in Italia potrebbe diventare un best seller un romanzo thriller ambientato nell’Università, per esempio a Tor Vergata e magari nei dormitori degli studenti.

Negli USA e in Inghilterra invece i “college novels” costituiscono un genere che piace ai giovani e agli adulti, soprattutto se, come nel caso di questo “The IT Girl” di Ruth Ware, chi narra è Hanna, un’adulta incinta di sei mesi, e non è mai guarita dal trauma della compagna di appartamento uccisa dieci anni prima, nel prestigioso college di Pelham, a Oxford.

Il caso, che sembrava concluso con l’arresto e la prigionia del custode molestatore, si riapre quando il colpevole muore e un giornalista vuole indagare e approfondire molte discrepanze di un processo basato su un’unica prova: la testimonianza di Hanna, che forse si è sbagliata.

La storia procede in modo un po’ meccanico alternando il “prima” e il “dopo”, l’epoca in cui si svolsero i fatti e l’oggi in cui non c’è pace, né tra la protagonista e il marito (ex della defunta, bello, desiderato e sposato con il disaccordo della famiglia facoltosa di lui), né tra gli ex compagni dell’università, uno colpito da un infarto, un altro solitario e impenetrabile, una fredda e carrierista. Certo è che, con tanti discorsi sulla democrazia e il merito, la caduta di barriere sociali e l’inclusione, a leggere un libro come questo (che mi ha molto ricordato “Dio di illusioni” di Donna Tartt) ci si domanda se ci evolveremo mai dai privilegi di classe e dal discrimine della ricchezza.

Bello questo titolo e bella la storia raccontata da Anilda Ibrahimi, scrittrice italo-albanese che in questo suo ultimo Volevo essere Madame Bovary (Einaudi 2022). Hera Merkuri, protagonista del romanzo, nasce a Santi Quaranta in Albania, e cresce durante il periodo comunista in una famiglia ligia ai dettami del regime, finché a vent’anni parte per l’Italia per motivi di studio e rimane a Roma, finalmente libera di essere femminile, seducente e vanitosa, oltre che creativa al punto di diventare una celebre artista visuale.

A tratti, Hera Merkuri sembra Marina Abramovich, famosa al punto che tutti la riconoscono per strada, ma a differenza della celebre artistar, la protagonista del romanzo si sposa con un editor italiano e ha due figli, coronando un po’ il desiderio di famiglia tramandato da sua madre e sua nonna, ma sentendosi comunque insoddisfatta, inappagata, finché non arriva un uomo (albanese come lei) a restituirle il brivido delle eroine che amava da ragazza: le amanti, le traditrici, le Emma Bovary che giganteggiano nella letteratura ottocentesca, e che con la loro tragicità e la loro voglia di autodeterminazione furono più libere delle donne intruppate in una visione piatta e materialistica del mondo, donne molto simili agli uomini per eliminare ogni disparità e ogni differenza.

Trovo che questo sia un romanzo intenso e importante, perché molto ci racconta dei motivi umani che spingono a cambiare paese, a cercare altri orizzonti, e non c’è bisogno che siano disgrazie terribili, guerre, carestie e regimi feroci. C’è il desiderio umano di curiosità, di evoluzione cognitiva ed esplorativa, di libertà, di andare oltre i propri confini materiali e psicologici, perché “I confini esistono per questo, cambiano il corso delle nostre storie.”

Bisognerebbe riflettere su questo più che su quel richiamo al superamento del patriarcato evidenziato in copertina. Sì, Hera Merkuri è femminista, ma non è soltanto questo, è un mondo.

Chiudo il libro di Jonathan Franzen con dispiacere e con la speranza che il già annunciato seguito non tardi a uscire in libreria. Perché Crossroads (ed. Einaudi), saga americana ambientata negli anni ’70 dello scorso secolo, nel circoscritto ambiente di una famiglia di un pastore mennonita, ha la capacità di trasportarti nell’affascinante, profondo, avvolgente mondo letterario, quello costruito dalle parole, in cui si entra soprattutto per questo: per leggere e immaginare la storia e i personaggi grazie a una grande potenza espressiva verbale.

Non ci sono colpi di scena, non le famose e sopravvalutate tecniche narrative, non c’è da scoprire assassini e nemmeno entrare in un ambiente trash e spaventoso, per essere premiati dal lieto fine. Invece si entra in contatto con umani pensieri e sentimenti, processi mentali, esperienze spesso deludenti, desideri e fantasie destinati a disillusioni, se non a bruschi risvegli perché non degradino nella follia. Quella fantasticheria che porta i diversi protagonisti (Franzen segue quasi tutti i membri della famiglia Hildebrandt, tranne il più piccolo per ora fuori fuoco) a tentare di fuggire dai loro ruoli, a inseguire il principio di piacere rispetto a quello di realtà, si intreccia con la religione cristiana che nei tre ragazzi Clem, Becky e Perry li spinge a frequentare il nuovo gruppo giovanile Crossroad che incoraggia a esprimere i sentimenti e a parlare con franchezza ma non li protegge dalla droga, né da propri fantasmi, e nel caso di Becky comporta la perdita di obiettivi ambiziosi. Una religione che il padre, il pastore Hildebrandt, interpreta in modo ipocrita, con atteggiamenti passivo-aggressivi e vigliacchi; mentre la moglie Marion, perseguitata da un passato di manie ossessive e follia, si aggrappa a Gesù per scansarne la ricaduta.

Cosa succede di preciso? Tutto e niente: sullo sfondo delle dinamiche personali e familiari ci sono la guerra in Vietnam, un’America in cui sta dilagando la cocaina, la liberazione sessuale e quella femminile, la musica e la conseguente industria musicale, la condizione dei nativi americani, ma c’è soprattutto la delirante illusione di ogni essere umano di essere un frammento di Dio, e forse essere Dio. Dentro gli eventi della storia, queste vite sono minime, sembrano portate più a imboscarsi che non a partecipare e incidere: ma la letteratura è lì per questo, per raccontare non i grandi ma il pulviscolare umano che contiene il tutto e il niente della nostra condizione immanente e fragile.

Davide Morosinotto, scrittore amato da ragazzi e insegnanti ormai da un decennio, ha vinto il Premio Strega ragazze e ragazzi 2021 con un libro appassionante, avventuroso, che ha per protagonista una ragazza, bambina orfana che vuole diventare ”forte” perché ”stanca di essere debole” e quindi essere libera, nel Settecento che in Europa porterà grandi sconvolgimenti con la rivoluzione francese, e che nella Cina di Shi Yu (la protagonista del romanzo) non contempla la libertà individuale e tantomeno femminile. Qui la sopravvivenza è legata alla legge del più forte e del più scaltro, in un enorme paese che fa da bacino per il commercio mondiale di beni di lusso, esportati attraverso le vie marittime dominate dalla nuova potenza inglese.

Insomma, una grande bellissima avventura di pirati e combattimenti, forza acquisita grazie alle arti marziali, nello scenario storico e realistico che finalmente esce dal solito panorama europeo o occidentale per aprirsi al grande oriente. E qui bisogna osservare una serie di interessanti cambiamenti: Morosinotto appartiene a una generazione di quarantenni che amano la letteratura per ragazzi e la interpretano come grande avventura, sostenuta da ricerche e studio storico, non come fantasia ed evasione. Inoltre, dopo molti libri con personaggi maschili, crea un’eroina appassionante, una bambina da romanzo dickensiano che diventa una donna intrepida, un po’ ”Kill Bill” e un po’ Carola Rakete, comandante di navi veloci come l’aria, in quel gruppo sociale che la libertà se l’era presa e alla fine era riuscita anche a farsela riconoscere con le ”lettere di corsa” che molti regnanti firmarono per avere i ”corsari” dalla loro parte.

Anche quest’anno insomma, il Premio Strega attribuisce il suo riconoscimento a un autore italiano con un gran bel libro che corona una produzione di sostanza, sostenuta dal favore della critica e del pubblico, cosa sempre meno rara grazie a scrittrici e scrittori che sanno entrare in sintonia con i lettori e le lettrici, che escono dai loro orizzonti e ne abbracciavo di vasti.

“Cinque minorenni in coma etilico in tre giorni”

La locandina è di tre giorni fa, ma vorrei usarla per parlare di un romanzo che ho appena finito di leggere, Tall Bones della giovane autrice Anna Bailey, pubblicato in italiano con il titolo “Chi ha peccato” (marzo 2021) e che racconta di un gruppo di adolescenti le cui vite si trovano travolte dalla scomparsa di una di loro, Abigail, appena quindicenne.

Siamo negli Stati Uniti di oggi eppure sembra di leggere “La Lettera scarlatta”, con la caccia alle streghe dei puritani fanatici. Perché anche qui siamo in una piccola città di fanatici religiosi, manipolati da un pastore che legge la Bibbia a modo suo, e cioè per intimorire, proibire, spaventare e controllare i propri fedeli, tra i quali i ragazzi che, all’insaputa dei genitori, di notte si incontrano nel bosco, organizzano feste scatenate a base di alcool e droga. Però chi di noi (lettori) non è dalla parte di questi adolescenti maltrattati, con storie atroci in famiglie fortemente disturbate?

Non si consuma alcool per puro piacere, come l’autrice ci mostra: Emma, la migliore amica di Abigail, inizia a ubriacarsi per stordirsi e punirsi, convinta di avere una parte di colpa nella sparizione dell’amica. Rat, ragazzo romeno che tutti chiamano in modo dispregiativo “zingaro”, beve perché rifiutato dalla comunità e relegato in una roulotte in un campeggio. Insomma, non c’è nemmeno da andare troppo a fondo per capire che il mondo adulto spinge i ragazzi a comportamenti rischiosi, devianti, autolesionisti. Razzismo, pregiudizi, ignoranza e ancora ferite dalle troppe guerre che gli USA conducono nel mondo sono il cocktail infernale in cui crescono i giovanissimi e di cui pagheranno anche le conseguenze.

Non c’è perdono e nemmeno giustizia nell’America che molto ci ha raccontato Eastwood al cinema, e a un certo punto il singolo si fa giustizia da sé, a fucilate. E questo è abbastanza triste, perché già oltre duemila anni fa i Greci hanno inventato il tribunale, dove non si ottiene soltanto una punizione, ma la catarsi di orrori, eppure gli statunistensi con i loro avvocati e giudici e tribunali famosi per la loro imparzialità, evidentemente non ci credono.

Per finire il nostro brevissimo percorso sul tema del pregiudizio razziale, oggi propongo un romanzo italiano della scrittrice Igiaba Scego, La linea del colore, pubblicato lo scorso anno da Bompiani e vincitore del Premio Napoli 2020. Si tratta di una lettura consigliabile per la scuola secondaria di secondo grado, sia per i temi affrontati che presuppongono una conoscenza più complessa della storia contemporanea italiana e internazionale (il colonialismo italiano in Etiopia, la pulizia etnica dei nativi americani, l’abolizionismo in USA, l’Europa di fine Ottocento e la sua cultura), sia per la forma del romanzo che intreccia due storie di donne, una del passato e una del presente. La scrittura invece è accattivante e scorrevole, adeguandosi anche un po’ allo stile del romanzo ottocentesco.

Credo possa essere molto interessante e formativo proporre un romanzo del genere ai più giovani che probabilmente poco o nulla sanno della triste stagione del colonialismo italiano e che spesso sono pronti a dichiararsi solidali con chi soffre ingiustizie lontane, e meno con chi vive magari sullo stesso pianerottolo di casa ed è arrivato dall’Africa o dall’Asia e magari ha una sfumatura più scura di pelle, quella “linea del colore” che per Igiaba è arte e vita.

Per gli studenti delle superiori potrebbe poi essere una bella esperienza dialogare con l’autrice, romana quarantenne, che ha scritto davvero dei bellissimi romanzi sul tema del colonialismo, dell’emigrazione e l’accoglienza come Adua (Giunti) e anche un libro per bambini sulla diversità: Prestami le ali (Rose Selavy), il racconto di una rinoceronte mostrata nei luna park come una specie di mostro e per fortuna alla fine liberata.