Mi domando se in Italia potrebbe diventare un best seller un romanzo thriller ambientato nell’Università, per esempio a Tor Vergata e magari nei dormitori degli studenti.

Negli USA e in Inghilterra invece i “college novels” costituiscono un genere che piace ai giovani e agli adulti, soprattutto se, come nel caso di questo “The IT Girl” di Ruth Ware, chi narra è Hanna, un’adulta incinta di sei mesi, e non è mai guarita dal trauma della compagna di appartamento uccisa dieci anni prima, nel prestigioso college di Pelham, a Oxford.

Il caso, che sembrava concluso con l’arresto e la prigionia del custode molestatore, si riapre quando il colpevole muore e un giornalista vuole indagare e approfondire molte discrepanze di un processo basato su un’unica prova: la testimonianza di Hanna, che forse si è sbagliata.

La storia procede in modo un po’ meccanico alternando il “prima” e il “dopo”, l’epoca in cui si svolsero i fatti e l’oggi in cui non c’è pace, né tra la protagonista e il marito (ex della defunta, bello, desiderato e sposato con il disaccordo della famiglia facoltosa di lui), né tra gli ex compagni dell’università, uno colpito da un infarto, un altro solitario e impenetrabile, una fredda e carrierista. Certo è che, con tanti discorsi sulla democrazia e il merito, la caduta di barriere sociali e l’inclusione, a leggere un libro come questo (che mi ha molto ricordato “Dio di illusioni” di Donna Tartt) ci si domanda se ci evolveremo mai dai privilegi di classe e dal discrimine della ricchezza.

Grande potenza nel film di Marco Bellocchio, Rapito, che racconta un fattaccio vero, avvenuto pochi anni prima dell’Unità d’Italia, e cioè la sottrazione alla sua famiglia di un bambino ebreo a Bologna, per una conversione coatta al Cattolicesimo. Non è l’unico bambino, come si vedrà, ma fa parte di un drappello di ragazzini portati via dalle loro famiglie con la motivazione che siano stati “battezzati” di soppiatto e dunque, per la legge canonica, cristiani. Un progetto folle di pulizia etnica, si direbbe, perché quei bambini sono speciali, diventano la dimostrazione del trionfo della “vera” fede sulla “superstizione ebraica”, sono i pupilli del papa Pio IX che, anziché preoccuparsi dell’imminente frana del suo potere imperiale su mezza Italia, appare molto impegnato in questa opera di indottrinamento.

E sì, la Chiesa è molto cambiata, ci mancherebbe, quindi sembra quasi un documento storico. Se non che, da grande autore, Bellocchio sa toccare temi di attualità e sensibilità attraverso la funzione della memoria storica a partire dal mai sopito antisemitismo, dalla rigidità delle ideologie per cui non c’è comprensione, ma divisione netta delle posizioni e violenza sui più deboli, come nelle guerre ideologiche che ci circondano. C’è il tema dei bambini rapiti, come abbiamo appena assistito con orrore in Ucraina, com’è accaduto in tanti paesi dove i bambini sono destinati a essere soldati, e le ragazze finiscono spose o prostitute. C’è la follia delle ritualità ossessive, compresa quella dei tribunali che non sono al servizio della giustizia ma del potere, vecchio o nuovo. E c’è la libertà di pensiero del regista ultraottantenne, che sfrutta la bellezza dell’immagine filmica, con scene e costumi e soprattutto luce ottocentesca, a favore di una storia che ci fa riflettere su cosa sia l’educazione, come sia antitetica alla repressione e all’indottrinamento, alla manipolazione, come sciolga i lacci soprattutto dei sentimenti umani, perché la prima cosa che impara il piccolo Edgardo Mortara rapito è congelarli per diventare un automa.

Vi avverto che il mio è un giudizio di parte (sarebbe interessante poi approfondire quale sia un giudizio non di parte quando si parla di letteratura o arte): ho visto tutti o quasi i film di Nanni Moretti fin dagli esordi, l’ho sempre trovato interessante, profondo, intelligente, ironico. E’ un regista cinefilo che ha realizzato film “sovversivi” – come gli dice il personaggio del produttore francese interpretato da Mathieu Amalric in “Il sol dell’avvenire” durante una fantastica corsa notturna in monopattino in una Roma deserta.

Sovversivo di cosa? Principalmente di una narrazione cinematografica standardizzata su parametri seriali, che presto l’Intelligenza Artificiale saprà realizzare meglio delle squadre di sceneggiatori che, come mostra una scena esilarante del film di Nanni (in cui il regista perplesso incontra i giovani produttori di Netflix), devono usare una scaletta rigida con colpi di scena, misteri e agnizioni, azioni su azioni per tenere desta l’attenzione amorfa del pubblico bisognoso di emozioni viscerali.

Sovversivo (nel significato etimologico di “cambiare, rivoltare dal basso”) Moretti lo è fin dagli esordi, non a caso con un film in cui si dichiarava Autarchico, sovversivo nella recitazione, nei temi, persino in un titolo che oggi molti non possono sentire, “Il sol dell’avvenire”, perché tramontato sul capitalismo globale. E sovversivo anche in un film che ne contiene molti. Lamenta, il regista Giovanni alias Nanni, di fare un film ogni cinque anni: ma in quello ne concepisce almeno cinque. C’è una storia anni ‘50 sul Partito Comunista e lo strappo con l’Unione Sovietica, ed è il film che il regista sta girando, tra citazioni felliniane e molte altre a lui care; poi c’è la storia che avrebbe voluto girare, su una coppia che attraversa cinquant’anni di vita segnata da canzoni pop e le canzoni prendono spazio, si balla e si canta con Battiato e De André, Aretha Franklin e Noemi; c’è il film rimasto in sospeso sul nuotatore, che Giovanni avrebbe dovuto girare da giovane, esprimendo una nostalgia che tutti, vecchi e meno vecchi, provano nel corso dell’esistenza: avrei dovuto fare (un viaggio, un trasloco, un cambio di lavoro o di studi, un azzardo) prima, da più giovane ( e per chi è giovane: quando stavo con i mei, quando andavo alle superiori, quando ero ragazzino. ecc., non c’è fine alla nostalgia). C’è poi la storia intima di una coppia in crisi ben oltre la mezza età, quando ormai sembra impensabile separarsi, e invece alla fine ci si separa, e c’è il racconto metacinematografico, i film nel film, perché, mentre realizza con difficoltà economiche il suo, Giovanni ficca il naso nelle riprese di un film di un “Tarantino di noialtri”, teorizzando e citando, sempre stralunato e appunto sovversivo.

Mi dicono che ai giovani un film del genere non può piacere, perché sideralmente lontano dai gusti nutriti a Netflix e Marvel. Ma io sono andata a spulciarmi le critiche, ho chiesto a nipoti e a giovani cinefili, e a quanto pare Nanni piace eccome. Certo, come alla mia epoca, mica a tutti, obiettivo da megalomani, non di Moretti ma nemmeno di Chicco Zalone, per dirne uno. Ma alla fine, chi è fuori moda, si scopre che è sempre di moda o meglio è modello di libertà di pensiero, coraggio, bravura.

Non tutti sanno dov’è, Samarcanda: più o meno in Asia, ma forse in Russia o forse in India?

Che si trovi nell’ignoto stato dell’Uzbekistan lo sa chi ha studiato o chi c’è stato. Oggi, posso ben dire di appartenere a entrambe le categorie, perché prima di andarci ho studiato, ho letto e approfondito, ho scritto anche un libro (Il mondo sarà, Giunti) in parte ambientato in questo spicchio di Asia centrale, e poi alla fine, sono andata di persona, perché come si sa la vera esperienza umana è fisica, sensoriale, e non solo astratta, mentale.

E’ un viaggio faticosissimo, si arriva di notte, si viaggia in pullman lungo strade malmesse che attraversano un brutto deserto, piatto e brullo, sbiadito benché porti il nome di Deserto Rosso. Le distanze sono molto lunghe, e le soste atroci: rarissimi villaggi emancipati da non molti anni dalla coltivazione intensiva costretta dai sovietici, edifici equiparabili ai nostri autogrill, con grandi tavolate e gabinetti disgustosi. Dice bene Erika Fatland nel suo affascinante libro Sovietistan, in cui racconta le repubbliche del centro Asia (tutte “istan che significa paese): si viaggia perché dimentichiamo alla svelta la fatica e alla fine pericoli e noie diventano aneddoti. Ma, aggiungo, si viaggia anche per immergersi, conoscere un po’, vedere, a volte riuscendo anche a entrare in sintonia, a sperimentare benessere. Un po’ difficile in questo paese carnivoro, soprattutto se sei tendenzialmente vegetariana, mediterranea e consideri il montone un interessante animale da osservare più che consumare.

Ma per la sintonia, può anche avvenire il miracolo. Arrivo a Samarcanda al secondo giorno dopo la fine del Ramadam, ed è festa. La meravigliosa, celebre (anche per chi non sa dov’è) piazza Registan si riempie di famiglie e soprattutto di ragazze e ragazzi che indossano i migliori abiti, e impugnano i telefoni per immortalare i loro stupefacenti edifici, loro stessi e noi turisti tanto diversi, noi occidentali in abiti tecnici e scarpe da trekking, e chiedono, curiosi, cordiali, da dove veniamo mai. Non hanno mai visto turisti, questi bambini e ragazzini in gita, alcuni dagli stati vicini, il Kazakhistan, il Tagikistan, altri da villaggi, e ci chiedono di fotografarci, il contrario di quel che succede sempre: sono i turisti a scattare immagini dei locali! Da dove vieni? Dall’Italia, espressioni perplesse, dall’Europa, stupore, apprezzamento, gioia. Ce ne sono così pochi di occidentali, qui. Zero americani, ovviamente siamo nell’orbita russa e vicini alla Cina, invece spagnoli, italiani, francesi, le “rondini” come ci hanno chiamato, la relativa avanscoperta perché gli hotel crescono velocemente, come funghi: nell’ultimo anno ne hanno costruiti a decine, confidando nell’espansione del turismo internazionale che non sia più soltanto russo o coreano. Ma attenzione, ci vuole la pace e l’apertura delle frontiere, l’accoglienza fiduciosa.

Le città che un tempo furono carovaniere sono spettacolari, hanno aspetti metafisici, d’argilla e legno e maiolica, tutte d’azzurro apotropaico che cacci il male, la minaccia, anche se poi hanno subito distruzioni e terremoti, oblio, finché non sono state riscoperte e restaurate già nell’Ottocento, sotto l’Impero degli zar. Sono città verdi, erano oasi e ora esibiscono giardini, soprattutto Samarcanda, famosa per i corsi d’acqua, tutta un parco oltre le Moschee e le madrasse, i mercati e i mausolei.

Se i bambini ci offrono empatia, con i loro sorrisi curiosi, e le famiglie si lasciano fotografare volentieri, tollerano che ci mescoliamo nei cortili dove si prega, un po’ di benessere è offerto dall’hammam locale, che sperimento a Bukhara, la città santa, e anche molto materiale con il suo mercatino diffuso in cui si tuffano avidi tutti i turisti, tutti noi bisognosi di esibire le prede del girovagare oltre il continente. L’hammam è in una stradina dentro il reticolo delle vie dietro la Moschea del Venerdì, che svetta nell’affascinante piazza principale, di notte illuminata in funzione stupefacente. Non è certo l’hammam arabo e nemmeno il rituale indonesiano: le donne che lavano e massaggiano parlano uzbeko e russo tra loro, chiacchierano, ridono, strigliano, brusche, manesche, ed è un peccato perché il locale è bello, circolare, non troppo soffocante, riscaldato da un deposito d’argento e dall’acqua calda che scorre sotto il pavimento.

E’ tutto molto, troppo frettoloso: le visite rigorosamente al seguito di una guida estenuante che racconta soprattutto gli aspetti religiosi dell’Islam, con una certa compiaciuta insistenza sull’harem. Ma senza sosta, né per bere un té (bevanda nazionale) o assaporare un gelato artigianale (novità), né per sedersi a godere, sedimentare, forse tentare di entrare in sintonia con i luoghi così diversi e imperscrutabili, e comunque magari meditare.

Che viaggiare è faticoso ma ineluttabile, è una spinta a misurarsi e uscire dai propri panni, dalla propria quotidianità, è immaginare prima ancora che vedere, avventurarsi ovviamente in modo protetto, ché non siamo più carovanieri né nomadi, né per fortuna guerrieri, siamo abitanti di un mondo che non comprendiamo se non a frammenti, e siamo uniti, guarda un po’, dall’arte, dalla sua potenza, dalla sua armonia che si dispiega in modo vario e spettacolare ovunque noi umani, che l’abbiamo inventata per noi stessi, andiamo.

Ecco a voi il capolavoro contemporaneo: Everything Everywhere All at Once dei Daniels, un rutilante film campione di incassi negli USA e vincitore di ben 7 dico 7 Oscar, a quanto pare in grado di mettere d’accordo pubblico e critica cinefila, insomma una bomba!

E tale mi è sembrata, una bomba violenta e insensata, che dopo la prima mezz’ora di originalità frana nell’estenuante montaggio del di tutto di più (da cui il titolo), e avete voglia a dirmi che è una parodia della Marvel, che la supereroina è una lavandaia e il nemico l’agente delle tasse (motivo di empatia da parte del pubblico mondiale), che si cita questo e quest’altro (e Tarantino e Kubrik e fantascienza de noiartri) a me il film è sembrato un videogioco noioso, perché almeno nel videogioco si gioca, in più è un ipertesto caricato di troppo significato: la comunità asiatica, il cinema sudestasiatico, le relazioni Lgqbt+, la diversità, un po’ di infarinatura di quantistica e, alla fine, il melenso e abusato rapporto madre-figlia, che dall’epoca di Ingmar Bergman non si schioda più dal bisogno di un’accoglienza e comprensione rispetto al giudizio, la freddezza e il rifiuto materno dato dall’adesione a modelli superati.

Se ho accolto con gioia la notizia del premio a una brava attrice dalla lunga carriera come Michelle Yeoh, e soprattutto le sue belle parole, mi sento di concludere come mia madre quando, di fronte a certi nuovi romanzi splatter, diceva: “Non mi intendo di letteratura di oggi. I fratelli Karamazov, quelli sì che erano una storia che si capiva…” Anch’io non mi intendo di cinema nerd e intellettuale di oggi.

Tra i non pochi rimpianti che mi porto addosso, c’è quello di non aver mai incontrato di persona Vitaliano Trevisan, uno scrittore come si diceva un tempo “autodidatta” perché non proveniente da studi letterari, né da facoltà umanistiche, ma grande appassionato lettore fin da ragazzino, e scrittore di successo dopo anni di lavori precari e no, di ogni genere, da muratore a grafico, da piccolo spacciatore a operaio, nella ricca provincia veneta dove sembra che il lavoro si trovi senza problemi, ce ne sia a bizzeffe e come ci racconta Trevisan nella sua autobiografia Works, si trova soprattutto a nero, con paghe da fame, e nessuna sicurezza.

Proprio in Works, ripubblicato da Einaudi con un’appendice sorta di “testamento letterario” intitolata “dove tutto ebbe inizio”, trovo un pensiero che condivido in pieno: “tempo di rimpianti per le occasioni perdute. Mai riuscito a pensare, mai, neanche una volta, che se tornassi indietro rifarei tutto. Se tornassi indietro, questo libro non esisterebbe.” Forse non rimpiange nulla chi è molto saggio, chi è in pace con se stesso, chi sa accontentarsi della vita e delle meraviglie che essa può offrire. Ma chi scrive si tormenta, non c’è dubbio e Trevisan è stato un uomo molto tormentato, con una famiglia anaffettiva, un percorso di crescita a rischio, in anni orrendi di tossicodipendenza e follie terroristiche, studi faticosi e anche detestati (il diploma di geometra), tantissimi incontri, e tantissimi rimpianti.

Il suo è un romanzo autobiografico fiume, che inizia nell’adolescenza e finisce con il successo letterario di vent’anni fa (2002, il premio Lo straniero al romanzo I quindicimila passi e il successivo esordio come sceneggiatore con Matteo Garrone), con una narrazione impetuosa, senza argini, senza ellissi, e dunque un romanzo come quelli di un tempo, di quasi settecento pagine di vita vera, dura, che copre l’ultimo trentennio dello scorso secolo, uno sgocciolio di secolo che si è portato via le energie vitali del dopoguerra, riducendo la politica a notariato, dopo trame, stragi di stato, corruzione, eversione, e trasformando un paese semplice, di origine contadina, in un paese pretenzioso, avido, soggetto alla religione del denaro e del successo purchessia.

Peccato non averlo mai incrociato in un festival, in uno di quei posti dove ci si trova tra scrittori, dove almeno tra noi ci riconosciamo e ci apprezziamo. Tra pochi giorni ricorre il primo anniversario della sua scomparsa che, inutile dirlo, è stata prematura benché cercata, voluta. Per andare avanti in questa professione che è anch’essa un lavoro precario, credetemi, ci vuole molto fegato, e molto amore.

Non sono spettatrice assidua delle serie tv, non riesco ad avere la pazienza di piazzarmi sul divano davanti allo schermo e seguire vicende immaginate da un gruppo di sceneggiatori il cui primo obiettivo è di stupirmi, scioccarmi, come si dice farmi emozionare a colpi di tecniche narrative e effetti speciali.

Però Esterno notte di Marco Bellocchio mi incolla sul divano (peraltro assai scomodo) per molti motivi: innanzitutto perché c’è lo sfondo storico di anni che io ho vissuto da ragazza, i famigerati “anni di piombo” che con grande coraggio Bellocchio mostra per ciò che erano, con le zone grigie di complicità nei confronti delle bande armate sia nelle fabbriche che nelle università e negli istituti superiori; c’è la ricostruzione di un rapimento finito tragicamente, il famoso “caso Moro” come lo chiamò Leonardo Sciascia nel suo celebre libro del 1978, intuendone l’intreccio di poteri coinvolti; ma soprattutto c’è la maestria nell’affrontare una materia molto complessa e delicata con la multi-focalizzazione, cioè la narrazione attraverso vari punti di vista e quell’ambientazione buia, notturna, in cui i protagonisti appaiono come spettri.

Cerei, insonni, severi, privi di calore e di sorriso, sono figure che mettono i brividi, simili ai fantasmi shakespeariani che rammentano delitti e altri delitti preludono, in palazzi non a caso rinascimentali e barocchi, come il Vaticano o Montecitorio, dove i personaggi storici perdono i loro connotati realistici per assumerne di simbolici, diventando incarnazioni di poteri rigidi e violenti, inamovibili pur in democrazia, poteri secolari identificati con teocrazia e patriarcato.

Di massimo livello perciò il cast: da un impareggiabile Fabrizio Gifuni in veste di Moro, alla “garanzia” Toni Servillo papa perfetto, a Daniela Marra che restituisce il delirio della brigatista Adriana Faranda, a Margherita Buy che diventa una Eleonora Moro più definita, una donna fuori dall’ombra del potente marito.

Confesso di vedere questo lungo film e soffrire, provare una paura profonda per la follia che scaturì un’insopportabile violenza. Come quasi tutti gli italiani di allora e di oggi, oltre a provare compassione per l’uomo Moro, non si può che riavvertire il rimpianto della mancata lucidità di restituirlo sano alla sua famiglia e soprattutto alla nostra società.

Bellissimo il nuovo romanzo di Paolo Giordano, Tasmania (Einaudi, appena uscito).

Sono tante le sottotrame che compongono il racconto principale, quello di uno scrittore quarantenne in cerca di ispirazione, forse lui stesso o forse no, per quel gioco che Amos Oz aveva ben delineato con la frase fulminante: “Tutto è autobiografia e niente è autobiografia.” E quindi Paolo, scrittore e collaboratore del Corriere, sposato con una donna più grande di lui, divorziata e con un figlio adolescente, laureato in fisica ma versato con successo alla carriera letteraria, sembra proprio identificarsi con lo scrittore Giordano, uno degli autori italiani di massimo risalto, il più giovane premiato con lo Strega, tradotto in mezzo mondo, e collaboratore dei Corriere della Sera per il quale nel periodo della pandemia ha pubblicato articoli di grande lucidità, non da “esperto” e nemmeno da “visionario”, ma da matematico.

Oggi si continua a ripetere che bisogna scrivere di ciò che si sa, quindi molto più di se stessi che di altri, e forse è considerato atto di superbia tentare la strada camaleontica di porsi nel punto di vista altrui. Così, in questo suo romanzo di una maturità che peraltro ha dimostrato di possedere fin dal primo libro, Giordano sceglie di essere lui stesso la figura attraverso cui si traduce la grande crisi di un’umanità arrivata quasi al limite, al punto fatale della propria estinzione, qui simboleggiata dall’incapacità di avere figli, e miope rispetto a un destino che pare ineluttabile: il protagonista infatti soffre di una giovanile cataratta che non gli permette una visione nitida, luminosa e colorata, ma da fisico qual è, Giordano sa che la vista è ingannevole, forse il senso più ingannevole per la ricerca e la sperimentazione.

Un po’ come l’artista Fellini in Otto e mezzo, il personaggio Paolo insegue una storia che “non interessa a nessuno” e cioè la bomba atomica scoppiata nel 1945 in Giappone, dimenticata come troppe tragedie, soprattutto quelle avvenute nella parte “sbagliata”, cioè dei perdenti. Paolo studia e intervista, mette insieme molte informazioni che ci racconta, e ricorda il pericolo nucleare, anch’esso rimosso fino a oggi in cui si torna a parlare (e persino con una certa spavalderia) dell’uso di armi atomiche. Nel frattempo, Paolo vive una crisi coniugale, assiste un amico separato, si lascia incantare dal fascino di un professore che si rivela misogino e narcisista, incontra donne sempre sfuggenti e un po’ arroganti, si lascia andare a un flusso del vivere oggi aborrito, perché improduttivo, considerato uno spreco, ed è invece, per ogni scrittore, la germinazione della creatività.

Mi sono dilungata, e ci sarebbe ancora da dire. Per esempio la meraviglia che uno scrittore oggi possa fare come gli pare: scrivere una storia “non storia”, carica di dolente umanità e consapevolezza, in cui chiaramente si parla di prossima estinzione umana, in barba ai generi di moda e a una narrativa rassicurante o che sposta il tema in un mondo fantasy. E lo dico da scrittrice “per ragazzi”, che ai più giovani vuole offrire una possibilità, e cioè che siano loro a far deragliare questo treno umano diretto a tutta velocità verso la fine del mondo.

Il film di Russell è presentato come irrisolto, caotico, un po’ un pasticcio a discapito di una fotografia bellissima e di magistrali movimenti di macchina. Si sa che la padronanza tecnica non fa il capolavoro, ma di sicuro può restituisci un buon film, che in certi punti si dilunga e sembra perdersi, ma alla fine riesce a rimettersi insieme e somigliare ai famosi classici che si rimpiangono sempre.

Perché dai classici Russell di sicuro è partito, per esempio da Jules et Jim dell’adorato Truffaut, con i tre amici, due uomini e una donna che passano il tempo divertendosi dopo una delle più spaventose guerre di tutti i tempi, il Primo Macello Mondiale. Che sia stato un grandissimo macello il regista lo fa quasi toccare con mano con le scene dei feriti, dell’estrazione delle pallottole e del ferro che l’amabile infermiera interpretata da una meravigliosa Margot Robbie usa per realizzare sculture e quadri surrealisti, alla Duchamp.

Il look di Margot in questa prima parte del film è ricalcato su Tina Modotti, la fotografa compagna di artisti, amica di Frida Khalo, rivoluzionaria, femminista, donna libera e antesignana della libertà femminile. Soltanto per questo personaggio vale la pena di vedere un film che un tempo si sarebbe detto “carico di immaginazione”, e ricco di “sottotrame” di vari generi: la spy story, il film di guerra, la commedia romantica, la parodia storica, il film di denuncia razziale, insomma non un pasticcio ma un “pastiche” con diversi registri, con attori molto brillanti e in grado di uscire dai soliti ruolo, come il quasi irriconoscibile Christian Bale.

A me è sembrato un film fantasioso, bello per le immagini, e persino un po’ checoviano con quell’aspirazione a tornare ad Amserdam, città d’amore, arte e libertà che sta per cadere sotto i nazisti. Ma i nostri eroi, belli e innamorati, fuggiranno altrove, e la destinazione non ci viene detta, non si sa.

Bello questo titolo e bella la storia raccontata da Anilda Ibrahimi, scrittrice italo-albanese che in questo suo ultimo Volevo essere Madame Bovary (Einaudi 2022). Hera Merkuri, protagonista del romanzo, nasce a Santi Quaranta in Albania, e cresce durante il periodo comunista in una famiglia ligia ai dettami del regime, finché a vent’anni parte per l’Italia per motivi di studio e rimane a Roma, finalmente libera di essere femminile, seducente e vanitosa, oltre che creativa al punto di diventare una celebre artista visuale.

A tratti, Hera Merkuri sembra Marina Abramovich, famosa al punto che tutti la riconoscono per strada, ma a differenza della celebre artistar, la protagonista del romanzo si sposa con un editor italiano e ha due figli, coronando un po’ il desiderio di famiglia tramandato da sua madre e sua nonna, ma sentendosi comunque insoddisfatta, inappagata, finché non arriva un uomo (albanese come lei) a restituirle il brivido delle eroine che amava da ragazza: le amanti, le traditrici, le Emma Bovary che giganteggiano nella letteratura ottocentesca, e che con la loro tragicità e la loro voglia di autodeterminazione furono più libere delle donne intruppate in una visione piatta e materialistica del mondo, donne molto simili agli uomini per eliminare ogni disparità e ogni differenza.

Trovo che questo sia un romanzo intenso e importante, perché molto ci racconta dei motivi umani che spingono a cambiare paese, a cercare altri orizzonti, e non c’è bisogno che siano disgrazie terribili, guerre, carestie e regimi feroci. C’è il desiderio umano di curiosità, di evoluzione cognitiva ed esplorativa, di libertà, di andare oltre i propri confini materiali e psicologici, perché “I confini esistono per questo, cambiano il corso delle nostre storie.”

Bisognerebbe riflettere su questo più che su quel richiamo al superamento del patriarcato evidenziato in copertina. Sì, Hera Merkuri è femminista, ma non è soltanto questo, è un mondo.